Delitto Macchi, scontro sul risarcimento a Binda per i tre anni di ingiusta detenzione

Il caso dell'uomo condannato all'ergastolo in primo grado per l'omicidio della studentessa varesina del 1987 e poi assolto nei successivi gradi di giudizio. La Corte d'Appello di Milano aveva accordato una compensazione di 300mila euro, ma la Cassazione ha rinviato gli atti accogliendo il ricorso della Procura. Si attende nuovo pronunciamento

MILANO – Non fu lui ad uccidere Lidia Macchi, la studentessa varesina di 20 anni, ammazzata nel 1987. Lo provano un’assoluzione piena in Appello, i giudici scrissero che non c’erano nemmeno degli indizi a carico di Stefano Binda, di Brebbia, arrestato nel 2016 per il delitto. La Cassazione ha definitivamente confermato la sua estraneità ai fatti. Binda è stato ingiustamente detenuto per quasi tre anni. Condannato all’ergastolo in primo grado è poi stato assolto nei successivi gradi di giudizio.

Binda ha chiesto allo Stato 300mila euro di risarcimento, accordati dalla Corte d’Appello di Miano. La Cassazione ha però accolto il ricorso della Procura generale rinviando gli atti alla Corte d’Appello di Milano. Oggi si è svolta la nuova udienza alla presenza degli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, i difensori di Binda, e del sostituto Pg Laura Gay che, davanti alla corte, si è rimessa alle ragioni della sua impugnazione accolte dalla Cassazione.

L’avvocato Esposito, per contro, ha ribadito che non vi erano, all’epoca dell’arresto, ragioni per la custodia cautelare in carcere. Un’udienza lampo alla quale Binda non era presente. La corte si è riservata.

La Procura insiste: “Con i suoi silenzi Binda ha contribuito all’errore sulla carcerazione”

La Procura generale di Milano ha insistito, nell’udienza di stamani davanti alla Corte d’Appello, affinché non venga riconosciuto un risarcimento per ingiusta detenzione a Stefano Binda, che fu assolto in via definitiva dall’accusa di avere ucciso Lidia Macchi, studentessa di 21 anni, sua ex compagna di liceo e come lui militante di Cl.

La giovane venne uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e ritrovata in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto, e il caso è rimasto irrisolto. Nell’ottobre 2022 la Corte d’Appello milanese, su istanza dei legali Sergio Martelli e Patrizia Esposito, aveva riconosciuto una “riparazione per l’ingiusta detenzione” da oltre 300mila euro per Binda, che era finito in cella il 15 gennaio del 2016, dopo che le indagini erano state riaperte a Milano, e c’era rimasto quasi tre anni e mezzo, fino al 24 luglio 2019. In secondo grado fu cancellato l’ergastolo e poi l’assoluzione venne confermata dalla Cassazione.

Nel giugno 2023, però, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza sul risarcimento, accogliendo il ricorso della Procura generale di Milano, che ha sempre sostenuto che “con i suoi silenzi” Binda avrebbe “contribuito all’errore sulla sua carcerazione” e che “la condotta mendace” negli interrogatori fu una “condotta fortemente equivoca”. Linea ribadita oggi nell’udienza ‘bis’ davanti alla quinta d’appello (presidente del collegio Roberto Arnaldi) dal sostituto pg Laura Gay. E a cui si è associata anche l’Avvocatura dello Stato.

Per la difesa, invece, il 55enne ha sempre ribadito che lui non c’entrava con l’omicidio e che era in vacanza in quei giorni e dei testimoni l’hanno confermato. Stando alla decisione della Cassazione di un anno fa, la Corte d’Appello dovrà prendere in considerazione questioni giurisprudenziali per esprimersi sul risarcimento o meno. I giudici si sono riservati.