Un segnale inquietante che non può essere archiviato come “impulso affettivo”

Il gesto di un estraneo su una bambina viene derubricato a “impulso affettivo”, mentre la misura cautelare si riduce all’obbligo di firma. Una lettura giuridica che stride con il senso comune e con il bisogno primario di tutela dei minori.

C’è un aspetto della vicenda accaduta all’uscita dell’asilo del Gallaratese che lascia sconcertati più di ogni altro: la tendenza immediata a ridimensionare, a interpretare, a smussare ciò che – per chiunque abbia a che fare con bambini – è oggettivamente inaccettabile. Un estraneo che afferra una bambina, la solleva, le prende il viso tra le mani e inizia a baciarla ripetutamente non è un dettaglio, non è una sfumatura, non è un gesto equivocabile. È un fatto grave. Punto.

Eppure il provvedimento del gip ha imboccato un’altra direzione, ipotizzando persino che si possa parlare non di un’aggressione a sfondo sessuale ma di violenza privata, cioè del reato meno grave, poiché mancherebbero – secondo il giudice – pulsioni di natura erotica. L’intero gesto sarebbe piuttosto legato a un maldestro “impulso affettivo”, come dichiarato dall’uomo: «Vorrei avere un figlio». È qui che si apre un abisso di incomprensioni tra ciò che la legge analizza e ciò che la comunità percepisce.

La domanda da farsi è semplice: davvero la questione principale è stabilire la natura dell’impulso? È sufficiente che un adulto affermi di avere agito senza intenzioni sessuali per trasformare un episodio allarmante in qualcosa di gestibile con un obbligo di firma quotidiano? Non si può ignorare che quell’uomo fosse irregolare sul territorio, senza fissa dimora, privo di qualsiasi rete familiare o sociale, con una storia – da lui stesso riferita – di problemi psichiatrici, e che si aggirasse indisturbato davanti a un asilo. Tutto questo dovrebbe bastare per rendere evidente la necessità di una misura più cautelativa, non certo più indulgente.

Perché il problema non è solo l’atto in sé, ma ciò che rappresenta: la rottura improvvisa di un confine che in una società civile deve rimanere inviolabile. Il corpo dei bambini non è uno spazio negoziabile. Non può diventare oggetto di interpretazioni psicologiche o attenuanti emotive. La tutela dei minori non ammette sfumature, soprattutto quando si verifica un contatto fisico imposto da un adulto sconosciuto.

Ridurre il tutto a un gesto “affettivo e confuso” non è solo un rischio giuridico: è un errore culturale. Significa perdere lucidità proprio nel punto dove la lucidità deve essere massima. Significa lanciare un messaggio pericoloso: che la gravità di un comportamento dipenda più dall’intenzione soggettiva dell’autore che dalla violenza oggettiva vissuta dalla vittima. Un ribaltamento che la collettività non può accettare.

Esiste poi un secondo problema, tutto istituzionale: il fallimento nel monitorare persone fragili, senza documenti, senza casa, senza diagnosi verificabile, senza un percorso di cura. Una falla enorme nella gestione del disagio che si è incrociata con la quotidianità di una famiglia qualsiasi. E che, in un altro giorno, in un altro luogo, avrebbe potuto generare conseguenze ancora più drammatiche.

Serve una risposta più ferma, più chiara, più all’altezza della realtà. Non si tratta di invocare soluzioni draconiane né di demonizzare a priori chi vive situazioni complesse. Si tratta però di ribadire un principio elementare: quando un bambino viene toccato contro la sua volontà, sollevato, trattenuto e baciato da un estraneo, la comunità non può accettare di sentirsi dire che si è trattato di un eccesso di affetto. Quello non è affetto. È un allarme. E come tale deve essere trattato.

La vicenda dell’asilo, al di là delle definizioni giuridiche, ha mostrato una crescente distanza tra ciò che la gente vive e ciò che le istituzioni comunicano. E se non si colma rapidamente questo divario, il rischio è che a perdere fiducia non siano solo i genitori della bambina coinvolta, ma un’intera comunità.