Delitto Macchi, la famiglia «Non un colpevole ma giustizia»

Hanno accolto la notizia con stupore, seppur ancora ovviamente non certi sulle reali responsabilità che potrebbe aver avuto nell’omicidio della loro adorata. I familiari della ragazza uccisa 27 anni fa a Cittiglio, aspettano l’esito della vicenda prima di sbilanciarsi: «Non vogliamo un colpevole a tutti i costi».

A parlare per la famiglia è come spesso è accaduto negli ultimi mesi il fratello di Lidia, , che all’epoca dei fatti aveva soltanto un anno. «Non ricordo ovviamente nulla di quei giorni, ma sono cresciuto nel ricordo di quello che accade quel 5 gennaio del 1987. L’ho sentito raccontare dai miei genitori più e più volete e mi sono fatto un’idea precisa di come possano essere andati i fatti».

Di sicuro c’è che Lidia uscì di casa per andare a trovare un’amica in Ospedale a Cittiglio e non vi fece più ritorno. Fu ritrovata in un campo poca distanze dal parcheggio e dalla casa di Piccolomo con 29 ferite da coltello sul corpo.

«Quel giorno accadde tutto casualmente. I miei tornarono a casa con un giorno d’anticipo dalle vacanze e senza avvertire nessuno. Lidia si trovò quindi in possesso dell’auto senza però avere alcuna possibilità di avvisare nessuno dei suoi programmi o dei suoi spostamenti». Non esistevano i cellulari ed è escluso che Lidia possa aver avvertito amici o conoscenti che stesse andando a trovare l’amica.

Ragioni che hanno sempre spinto i familiari a credere che l’autore dell’atroce omicidio non fosse una persona vicina a Lidia o alla famiglia.

«Al contrario di quello che gli inquirenti hanno sempre pensato e verso cui hanno rivolto le indagini. Si è indagato nell’ambiente domestico e in quelle delle frequentazioni di mia sorella, tralasciando indizi importanti». Come, forse, quello del maniaco che quattro donne avevano denunciato per aggressione nei giorni precedenti al delitto e che si aggirava proprio nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio.

«Una certa somiglianza tra l’identikit dell’aggressore e una foto di Piccolomo risalente a quel periodo c’è – rivela il fratello – Però è anche vero che negli anni ’80 tutti portavano lunghe basette e baffi». Ma ci sarebbero altri elementi considerati sufficienti per poter giungere ad un processo che possa far luce sulla morte della ragazza varesina. A cominciare dalle dichiarazioni delle figlie di Piccolomo che, dopo aver scoperto che il padre era l’assassino del delitto delle mani mozzate, dichiararono che il genitore le spaventava dicendo che avrebbe fatto fare loro la stessa fine che fece fare a Lidia Macchi.

Dichiarazioni fatte a distanza di vent’anni da quel delitto «credo per un bisogno delle figlie di verità e giustizia, anche nei confronti della madre (, morta carbonizzata nella sua auto nel 2002. Per quel fatto Piccolomo patteggiò una pena di un anno e quattro mesi per omicidio colposo ma la Procura di Varese ha riaperto il fascicolo con l’accusa di omicidio volontario).

«Non abbiamo mai pensato che avrebbero potuto parlare prima, erano delle bambine e si sono rese conto dei fatti poco alla volta mettendo insieme i pezzi come se fossero quelli di un puzzle».

Un puzzle che sta per comporsi e tracciare il volto dell’assassino di Lidia.

«Mi sembra prematuro parlare di questo – conclude il fratello – Aspetteremo l’esito del processo e poi vedremo, non vogliamo un colpevole a tutti i costi. Per questo siamo sollevati che sia stata chiesta l’archiviazione per don , accusato ingiustamente per 27 anni».

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