«Era la mattina del 12 settembre 1945 Tornai a casa dopo l’inferno del lager»

Giovanni Tenconi ci racconta la sua guerra: la chiamata alle armi, la prigionia, le atrocità delle SS. «Con l’esercito in rotta venni deportato a Magdeburg, il viaggio di ritorno fu un’odissea di due mesi»

È l’aprile del 1943 e a Vinago, un pugno di case e fattorie nel paese di Mornago, i ventenni del posto che non lavorano alla produzione di aerei nella vicina SIAI Marchetti sono in attesa della cartolina di precetto per il fronte della seconda guerra mondiale. Una mattina, il postino arriva anche a casa Tenconi e la destinazione per il secondogenito Giovanni è La Spezia, Reggimento San Marco, Battaglione Bafile, 5a Compagnia 4° Plotone. A mamma Maria vengono gli occhi lucidi.

Il viaggio in Liguria è lungo e per niente comodo. All’arrivo in caserma è distrutto e la branda lo abbraccia facendolo finalmente addormentare. La tranquillità dell’attesa per conoscere la destinazione non dura molto. Il secondo giorno di Giovanni in divisa da marinaio inizia con un bombardamento che rade al suolo l’intera città di La Spezia costringendo i militari a riparare in una galleria. Altri due giorni in condizioni critiche e poi arriva la decisione di farli partire così

come sono in direzione Pola. Pochi giorni dopo a Pola arrivano anche i tedeschi e quello che doveva essere un battaglione dell’esercito italiano era solo un gruppo di giovani facile preda per essere imprigionato e deportato in Germania prima in un campo di smistamento e poi a Magdeburg dove Giovanni, insieme ai suoi compagni di sventura, lavora in una fabbrica e dorme in una palazzina, ovviamente guardato a vista dai soldati tedeschi che da quel momento per Giovanni diventano i tugnitt.
«Non stavamo poi così male – ricorda Giovanni – a me arrivavano i pacchi che mi mandava la mia mamma attraverso la Croce Rossa. Gli scrivevo di mandarmi roba da mangiare ma anche tante sigarette che io, non fumatore, usavo come ricercatissima merce di scambio. Quando aprivo il pacco i tugnitt mi guardavano male ma non potevano toccare le nostre cose. Ma con noi italiani ce l’avevano soprattutto perché li facevamo diventar matti al momento dell’appello quando gridando più volte il nostro nome o qualche parola in tedesco gli facevamo perdere il conto. Altra cosa che li faceva imbestialire, perché venivano puniti a loro volta dai loro superiori, era che riuscivamo regolarmente a far sparire di notte le patate che immagazzinavano di giorno».

Il tempo passa e di giorno al lavoro e alla sera in camera tra italiani, francesi e polacchi nascono amicizie e girano informazioni. Soprattutto i francesi sapevano quanto stava succedendo negli altri campi in Germania, in Polonia, in Austria, dove il lavoro era solo una copertura di una ben più tragica realtà. «Non serviva parlarci – riprende Giovanni – in certe sere bastava guardarci, in silenzio. Poi c’era sempre qualcuno che s’inventava qualcosa e almeno per un po’ l’atmosfera migliorava. Si era creata anche una bella orchestrina con un fisarmonicista bravissimo di Tradate del quale mi ricordo bene la faccia ma il nome».
Ma a volte, avendo a che fare con le SS anche uno scherzo può costar caro. «Da qualche giorno di notte sentivamo rumori strani e al mattino trovavamo una coperta mordicchiata, una patata a metà e altri più o meno piccoli segnali che oltre a noi in casa ci fosse anche qualche altro ospite. L’indagine fu rapida e proficua. In 24 ore di impegno totale, i nostri vicini di stanza trovarono un ratto grande come un gatto anzi, come un coniglio. Pacchi o non pacchi la fame era tanta e il gruppetto di improvvisati cacciatori decise di cucinare il ratto per dare un tocco di qualità all’alimentazione di quei mesi di stenti.Peccato che il profumo varcò anche la finestra fino ad arrivare al naso delle SS che in pochi secondi fecero irruzione nella casa. L’odore era quello di carne cucinata, quelli che si vedevano nei piatti erano del tutto simili a pezzi di coniglio e quindi la domanda che risuonava nell’aria con un tono atroce era: “dove avete preso questa carne di coniglio?”. L’accusa era quella di furto nella vicina dispensa degli ufficiali tedeschi. “È un topo!’ – ripetevano disperati i prigionieri – non è un coniglio è un topo!’ Ma le SS non sentivano ragioni e a calci e pugni cominciarono a mettere in fila quei poveretti terrorizzati che sapevano a cosa stavano andando incontro: la fucilazione. Ma mentre erano ormai ad un passo dall’uscita in cortile, uno di loro lanciò un urlo: “Aspettate”. Pochi secondi e con un urlo di gioia il giovane riemerse dalla spazzatura con un pezzo di pelo di una quarantina di centimetri. Alla vista di quel salvavita tutti i tugnitt corsero via dalla casa in preda a conati di vomito. Era andata».

Settimana dopo settimana arriva un risveglio particolare con i tedeschi che scappano e i cancelli aperti da dove uscire da uomini liberi. «La guerra era finita e quelli che per due anni ci avevano dipinto come i diavoli in terra, i russi, ci raccoglievano dove capitava, allo sbando come eravamo finiti. Eravamo già in agosto, nel 1945, e sul mio diario scrivevo tutta la mia speranza di tronare a casa. Dopo un paio di mesi i russi ci fecero arrivare fino a Praga per poi accompagnarci di nuovo in Germania da dove prima a piedi e poi in treno arrivai da Verona fino a Milano per poi salire sul treno per Varese e scendere alla stazione di Albizzate. Salendo dall’unica strada vidi mia madre curva a lavorare la terra. Non mi ricordo cosa ci siamo detti. Il giorno dopo, la mattina del 12 settembre 1945, mi risvegliai nel mio letto con davanti i visi della mia mamma e di mia sorella. Nell’aria c’era profumo di pane e di libertà».