Il cielo di Varese colorato dal Papa. E poi calò la notte

Trent’anni fa Giovanni Paolo II al Sacro Monte. Quella sera la città si sentì padrona del mondo. Da allora cosa avete fatto per il nostro gioiello?

Quando per la gioia dei fedeli si sporse dal monumentale balcone del Mosé, era ormai calata la sera e iniziava a tirare un’aria pungente.
Ci aveva messo un’ora e un quarto a salire dalla prima alla quattordicesima cappella e poi ancora qualche minuto a trasferirsi lassù, sull’architettonica cima del Sacro Monte, dove avevano issato perfino una madonna biancazzurra in polistirolo alta otto metri così da ricevere l’ospite in un’acconcia scenografia. Sessantamila anime tutt’attorno al pellegrino tra i pellegrini, alla veste candida che sfumava tra i riflessi del sole basso di novembre, al lento arrampicarsi pontificale nella recita del rosario.

L’avevano atteso a lungo, . C’era chi s’era perfino accampato durante la notte, pur di non perdere la prima fila. Chi aveva chiesto il permesso d’uscita anticipata al datore di lavoro. Chi radunato, e magari non gli capitava da un pezzo, la schiera dei parenti, portandosela tutta quanta al grande avvenimento. Fu, quel 2 novembre di trent’anni fa, una festa di religione e di popolo, di commozione e di fraternità. Il Papa sfuggito alla morte e salvato -lui se ne diceva certo: un miracolo- dall’intervento

della Madonna, veniva qui proprio a trovare lei. La signora nera della nostra montagna.
Suscitò imprevista emozione anche tra coloro che non frequentavano abitualmente le chiese e gli oratori, i confessionali e le opere pie: si chinarono ammirati al passaggio, vinsero i pudori e non rinunziarono ad applaudirlo. Il predicatore polacco invitò a ricordare l’insegnamento di San Carlo: compiere opere di santificazione personale. Cioè sacrificarsi per gli altri, l’unico modo per non sacrificare il meglio di se stessi. I notabili della città ascoltarono attentamente e presero coscienza, o si suppone che lo facessero. Ma la sollecitazione andava a tutti. E poi, a pensarci bene, non sarebbe stato neppure necessario che il Papa parlasse: bastava il linguaggio dei suoi occhi a far capire ciò ch’egli voleva si capisse.
In fondo comunicò una cosetta semplice e straordinaria: ci sono tesori che nessuna ruggine può corrodere e nessun ladro rubare, si chiamano amore e giustizia, verità e bene. Onestamente: quale laico avrebbe potuto, e potrebbe, obiettare sulla consistenza e il significato d’un tale patrimonio? Quale inquilino di questo mondo si sarebbe potuto, e si potrebbe, permettere di discutere sui valori di testimonianza, partecipazione, dialogo esaltati da un così raro avvenimento? Quale incontentabile non avrebbe provato un minimo di contentezza assistendo allo spettacolo della massima spontaneità collettiva che tributava d’un colpo, di cuore e idealmente, la cittadinanza onoraria d’un remoto angolo di Lombardia al vicario di Cristo?
E quale sensibilità non avrebbe colto nel privilegio dell’incontro concesso dal pastore cristiano ai malati, alle suore romite, ai residenti sacromontini la sottolineatura della primazìa di cui sono meritevoli la sofferenza, la meditazione, la famiglia?

Gli fecero compagnia, sul percorso penitenziale voluto dall’Aguggiari e arredato dal Bernascone, l’arcivescovo Martini, il vescovo Citterio, il prevosto Pezzoni, l’arciprete Macchi. Fu lui, il don Pasquale che rifiutava modestamente l’appellativo di monsignore fin dal tempo in cui era il segretario di Paolo VI, a promuovere l’evento, dettarne contorni e tempi, farne il momento più intenso del rilancio di spiritualità e cultura del Sacro Monte iniziato nel ’78. La società politica, capitanata dal sindaco Gibilisco e dal ministro Zamberletti, apprezzò e condivise, prese degl’impegni e li lasciò in eredità ai successori. Sarebbe seguita, oltre ai restauri d’alcune cappelle, la riattivazione della funicolare. Non sarebbe seguito altro di memorabile e neppure di significativo: l’arricchimento artistico lungo l’antico acciottolato rimase (è rimasto fino ad oggi) qualcosa a metà tra il progetto e il sogno; il vecchio borgo ha reclamato attenzioni municipali -parcheggi razionalmente integrati nell’ambiente e strutture di servizio utili alla frequentazione del borgo- che si sono perdute in un succedersi distratto di promesse, salvo l’idea sbagliata dell’autosilo alla Prima Cappella, nella roccia di fronte all’Immacolata; lo spopolamento dell’ex baluardo contro gli eretici ha impoverito di radici un luogo che ne andava (continua ad andarne) orgoglioso.

Ai biscotti che Wojtyla -prima di ripartire in elicottero dal piazzale Pogliaghi- sgranocchiò bevendo un tè caldo nel salottino dell’abitazione di Macchi, sopravvive unicamente il sapore di “madeleine” proustiana: quando la memoria lo recupera, si accendono i fari su quella memorabile giornata. Poi arrivano (arriveranno, seguitano ad arrivare) le ombre. Che non sono quelle positive dipinte dal Caravaggio per esaltare la luce e caricare di simbolici chiaroscuri i suoi quadri e neppure quelle, altrettanto positive, poetate da Borges per tessere l’elogio dell’intimità e attenuare i colori troppo pacchiani della vita. Sono, molto più semplicemente e purtroppo negative, le ombre della mediocrità. Sempre troppo lunghe, nella contemporaneità dal respiro corto.