Varese aveva un cuore Ed era piazza Repubblica

Nota come Piazza del Mercato, era il luogo di ritrovo preferito dei varesini. Si leggeva il giornale chiacchierando e bevendo un caffè sotto i tigli

Una piazza è come la mamma, ti accoglie sempre. Ti vuole bene e sa sempre essere diversa, colorata o grigia, malinconica o fibrillante, sempre pronta a consolare. Somiglia a un viso, ha rughe e sorrisi, lacrime e ammiccamenti, strizza l’occhio e alza il sopracciglio, ma alla fine ti abbraccia. Sempre.
Una piazza è uno specchio, riflette lo stato d’animo di una città,  l’ umore, il grado di civiltà, la passione per la sua storia e il carattere di chi vi abita, appare immobile e in realtà non sta mai ferma, cambia pelle ogni giorno, vive o muore in consonanza con chi la frequenta, perché le sue pietre, gli alberi e le panchine vibrano come antenne.

Una piazza è un libro aperto, in cui scriviamo il racconto delle strade, dei quartieri, dei negozi, le parole della nostra vita, in fondo uno spazio aperto da riempire con i sogni. Una piazza è anche un modo di dire, perché sai che lì avviene questa o quell’altra cosa, c’è la tale abitudine, il piccolo rito quotidiano, così si dice «la piazza del caffè» o quella «dove c’è la fioraia», «della fontana rotta» oppure «vicino

a dove abitava il Gino». Raramente si chiama la piazza con il proprio nome, perché è come una persona di famiglia, per la quale si impiega un vezzeggiativo.
Così piazza della Repubblica, per i veri varesini rimane sempre piazza del Mercato, come un secolo fa, quando la spianata di lato alla caserma “Garibaldi” era in terra battuta e il mattino presto arrivavano i “marossee”, i sensali di bestiame, per la compravendita di bovini e la fiera dei cavalli, un’abitudine nata addirittura nel Quattrocento.
Allora la città era tutta lì, intorno a quel rettangolo circondato dai tigli e da qualche ippocastano, come quello che sovrastava il “Chiosco Varese” del Ponzini, tavolini all’aperto, i ciclisti a farvi tappa per una spuma al volo. Intanto si chiacchierava, e dalla caserma arrivava lo squillo del trombettiere e la voce dei soldati, raramente passava un’automobile, più spesso un carretto a mano.
Nei giorni di fiera mettevano le tende piccole compagnie di acrobati e danzatori, non mancavano il mangiafuoco e il “pappaciod”, che ingurgitava chiodi e pezzetti di ferro, la pitonessa con la sfera di cristallo e gli occhi assassini, l’uomo con la scimmietta e l’organino, la funambola con l’ombrellino al suono della fisarmonica.

Le verduraie arrivavano da Casbeno e si sedevano per terra, a volte si portavano appresso lo sgabello da mungitore, sistemavano le ceste con l’insalata e le verze, le carote e i fichi, capitava avessero anche qualche dozzina di uova e i “pulaster” venuti su a chicchi di “formenton”.
Accoglieva tutti, la piazza, le ragazze aspettavano l’uscita dei soldati, i monelli scroccavano una sigaretta e qualche monetina, c’era odore di stallatico e fumo di trinciato, il dialetto correva veloce, era la Varese del popolo, i signori passeggiavano in corso Vittorio Emanuele, facevano i loro acquisti in piazza Porcari e in via Vittorio Veneto.
Ma la piazza del Mercato, diventata poi dell’Impero e quindi della Repubblica – che al tempo degli Austriaci accoglieva nel suo centro una piccola caserma, abbattuta con l’annessione della Lombardia al Regno d’Italia – per ogni varesino ha rappresentato una virgola di vita, almeno finché il suo volto è rimasto familiare, con il capannone del mercato coperto, i fondachi con le granaglie, il garage Bertoni e il caffè Firenze, dove si gustavano spremute e gelati tra i migliori della città.
Ordinata e pulita, le aiuole fiorite, il profumo dei tigli che ne faceva il nostro “Unter den Linden”, l’edicola dell’“Osso” in posizione strategica, i tendoni delle bancarelle dei mercanti come vele, a trasformare la piazza in un porto di mare, con mille voci a rincorrersi nello spazio infinito che il monumento del Butti ammantava di solennità.
Uno spazio per la gente, con intorno negozi e tavole calde, dove atterrava la Befana con l’elicottero, e a volte, in primavera, un equilibrista un po’ pazzo tendeva la sua fune dal palazzo di fronte alla caserma e si faceva una passeggiata in cielo, sopra le nostre teste di bambini.

Era la piazza dove il sabato noi ragazzi, bulletti neopatentati, parcheggiavamo la 126 arancione per farci poi vedere in corso: la macchina messa lì ci dava un senso di conquista, un pezzo di Varese era nostro, lì solo qualche anno prima andavamo a far la spesa con la mano in quella del nonno, e il Lungo Francesco ci regalava una mela, rossa e profumata.
Non è mai stata davvero bella, la piazza del Mercato, nemmeno da giovane, quando si chiamava “dell’Impero”, i suoi lineamenti sono sempre stati duri, come quelli di una vecchia zia, un po’ ruvida ma dal fascino bislacco e di gran cuore, che non sorride molto ma capisce. O meglio, capiva, finché era certa di far parte ancora della città, della Varese dei commerci e delle fiere, dei caffè e dello sport, con persone rispettose dei suoi alberi e delle sue panchine, delle aiuole e dei gradini, perché parte di un unico corpo, di carne e di pietra, di sangue e di cemento.
Una piazza è l’anima di chi la frequenta. Purtroppo, l’abbiamo dimenticato