Dalla vittoria della speranza al trionfo della rabbia

Leditoriale di Francesco Caielli

Otto anni fa aveva vinto la speranza, ieri ha trionfato la rabbia. I sogni urlati di quello slogan – “Yes we can” – che ognuno aveva fatto proprio, sono stati spazzati via in una notte folle, lunga, inaspettata e spiazzante. Il mondo si ritrova sballottato a cercare di capire quello che succederà, anche se forse sarebbe meglio provare a rendersi conto di quel che è successo. Perché dietro alla vittoria di Trump e al tracollo della Clinton, c’è un mondo intero da leggere e interpretare. Perché la sconfitta di Hillary Clinton è tante sconfitte in una.

È la sconfitta, e scrivere questa cosa ci fa sanguinare il cuore, di Obama: perché se la speranza si trasforma in rabbia significa che qualcosa è stato sbagliato, significa che l’ex presidente non è riuscito tracciare una strada sulla quale continuare a camminare. Con o senza di lui.

È la sconfitta di un mondo intero, che pensava di esistere ancora e invece non esiste più: quello del giornalismo e della comunicazione, arroccato su credenze e supposizioni che andavano bene fino a dieci anni fa e che ora sono state demolite da una realtà che è cambiata troppo in fretta. I grandi giornali americani che hanno snobbato, sfottuto, spernacchiato Trump credendo di renderlo impresentabile agli occhi della gente e che invece hanno ottenuto l’effetto opposto.

I grandi giornali che insultando gli elettori di Trump hanno inconsapevolmente insultato i loro lettori, e non c’è colpa peggiore per un giornalista, non c’è colpa peggiore del mancare di rispetto al suo bene più prezioso: il lettore, appunto. I grandi giornali che hanno ignorato la marea crescente – e, diavolo, era lì da vedere: sarebbe bastato cacciare la testa fuori dalla redazione – che seguiva le parole di Trump, che ne ascoltava incuriosita la dialettica e trovava sfogo alla rabbia nelle sue parole.

È la sconfitta della politica. Gli elettori americani hanno deciso di non votare il candidato spinto e supportato da un partito, e hanno invece scelto di dare fiducia a chi dal proprio partito era stato abbandonato e isolato.

È la sconfitta di chi ha pensato di proporre – all’America e al mondo – una figura come la Clinton, legata ai vecchi poteri, già sconfitta da Obama nelle primarie del 2008, simbolo di quella politica che gli americani avevano già detto di non volere più. Ed è la sconfitta di chi ha scelto di puntare su Hillary anziché su una figura come Bernie Sanders che avrebbe vinto, avrebbe vinto perché si era dimostrato capace di parlare alla gente, di parlare ai giovani.

È la sconfitta dei vip hollywoodiani, degli attori, delle stelle e dei cantanti (Boss, perdonami), di chi pensava che bastasse dire «Se vince Trump noi ce ne andiamo» per sistemare le cose e convincere la gente.

È la nostra sconfitta: di noi europei che ci ostiniamo ad avere un’idea degli Stati Uniti che è artefatta, non è reale, è diversa dalla verità. E ogni volta restiamo fregati.

È tante sconfitte in una, sì. Ma è anche una grande occasione. L’occasione, per l’Europa, di iniziare a camminare da sola. O almeno, di provarci. Senza stampelle, senza spinte, senza paracadute. Come una vera Confederazione di Stati. Questo, per noi, è un dovere storico.