Giro d’Italia Un rito che parla di tutti noi

L’editoriale di Francesco Caielli

«Scendi, scendi che passa il Giro». Questa frase qui, quando eravamo bambini, suonava come la più bella delle canzoni perché per noi, guardare passare il Giro d’Italia, era come Natale. Il bello era tutto nell’attesa: si andava in strada un paio d’ore prima, tendendo l’orecchio alle sirene delle moto della polizia, poi i colori della carovana pubblicitaria e alla fine il gruppo. Pochi secondi, giusto il tempo di scovare la maglia rosa o di riconoscere qualche corridore (o convincersi di averlo fatto).

Ecco perché è sempre bello, quando il Giro ricomincia: un rito che si rinnova. A dirci che il mondo sarà pure cambiato ma che le cose belle e quelle importanti sono rimaste uguali. Certo: sono lontanissimi i tempi in cui il ciclismo era affare solo (o quasi) di noi italiani, lontani i tempi in cui noi varesini tifavamo i nostri che vincevano (Garzelli e poi Basso, ben due volte). Però il Giro davvero non riesce a non piacerci: e ci piacerà anche quello che inizia oggi. Con le sue salite, le sue polemiche, le sue volate, le sue storie. E con le sue lacrime, perché Michele Scarponi mancherà ogni giorno, ogni tappa: mancherà al Giro, mancherà a noi. Buon Giro lo stesso, sempre e comunque. Pensando ancora a quel nonno che, oggi come trent’anni fa, dirà al suo nipotino: “Scendi, scendi che passa il Giro”.