Ricordare la tragedia del Vajont è un dovere

Alle 23.39 del 9 ottobre 1963 una frana si staccò dal Monte Toc cadendo nel lago artificiale sottostante: l’onda spazzò via paesi e vite

Il 9 ottobre è il giorno in cui l’Italia deve farsi silenziosa e vergognarsi di quello che è stata, di quello che è. È l’anniversario che, ogni maledetta volta, riesce a riaprire una ferita. Quella del Vajont. Alle 22.39 del 9 ottobre del 1963 una frana si staccò dal Monte Toc cadendo nel lago artificiale sottostante. L’onda provocata tracimò dalla diga andando giù per la valle a spazzare via paesi e vite. Erto, Casso, Longarone. 1917 morti.

1917 omicidi. Perché ci sono voluti cinquant’anni, c’è voluto lo spettacolare spettacolo di Marco Paolini, c’è voluto il ricordo e la memoria di chi quella tragedia l’ha vissuta per far uscire dal fango la verità. La verità di gente sacrificata e mandata al macello in nome del progresso e di un’idea di futuro malsana e miope. La verità di una diga maledetta costruita dove non si doveva, di gente strappata dalle case e da una vita dura. La verità di un funerale celebrato a un’Italia che non serviva più a nessuno e che nessuno voleva più. Ricordare il Vajont ogni giorno dovrebbe essere un dovere costituzionale per ogni italiano amante della verità, di ogni uomo spinto dalla curiosità di sapere e di non accontentarsi di quello che gli viene raccontato. Il Vajont è una data che ha segnato la storia del nostro Paese: c’è un prima e c’è un dopo.
Oggi, in questo anniversario, raccontiamo cos’è stato il Vajont per chi scrive. Schiaffo in faccia preso da un Marco Paolini che allora nessuno conosceva, il suo spettacolo portato a Varese in una saletta con una trentina di persone, mica di più. E alla fine quella chiacchierata: «Volete davvero conoscere il Vajont? Andateci: andate su, ad Erto. E parlate con la gente. Poi salite sulla montagna, camminate per un’oretta su quei sentieri, sedetevi in cima e guardate giù. E capirete tutto». Ci andammo, lassù: adolescenti e sognatori, per scoprire una storiaccia tutta italiana e per veder crescere la nostra rabbia verso le ingiustizie.
Oggi il Vajont è ancora lì: cambiato rispetto a quello di qualche anno fa, ma ancora capace di far sentire il suo messaggio impossibile da ignorare. Andateci. C’è un museo, c’è la possibilità di camminare su quella maledetta diga, c’è la possibilità meravigliosa di farsi raccontare tutto da chi ha vissuto la tragedia. Di chi quella notte di 52 anni fa si è visto piombare addosso il finimondo: una montagna, un muro d’acqua, una frana di ingiustizie e soprusi. Andateci, e fate come ci disse Paolini: non fermatevi al cimitero di Longarone, alla diga. Salite sulla montagna e guardate giù. Perché capire è un dovere di tutti, perché ignorare la nostra storia è una colpa. Poi c’è il Vajont varesino. Quello di chi 52 anni fa decise di partire per andare a dare una mano a tirare fuori i morti dal fango. Ma anche quello di oggi, fatto di persone che sono rimasti stregati dallo spettacolo di Paolini e hanno voluto andare a vedere. La nostra Simona Carnaghi, per esempio: che si è presa tre giorni di ferie ed è andata lassù con suo marito. O il nostro Roberto Bof, che (esattamente come chi scrive) il 9 ottobre festeggia pure il suo compleanno e che del Vajont ha parlato, scritto e raccontato. Che senso ha questo editoriale? Uno solo, uno soltanto. Ricordare e farci ricordare. Duemila morti ammazzati dall’ambizione e dal cinismo. Una verità insabbiata e tenuta nascosta per troppo tempo. La voce di un Paese meraviglioso che eravamo e che oggi non siamo più.