Spegnete il web, vogliamo scendere

Il commento del nostro Francesco Caielli sulla reazione della rete alla morte del giovane writer travolto da un treno ad Arona

Adesso, per piacere, spegnete un po’ il web. Che voglio scendere. Per poi saltarci sopra di nuovo, ci mancherebbe, che questo non vuol essere uno di quei pipponi tecno-vegani di chi finge di poter fare a meno della rete: di Facebook, di Twitter, di Google.
Però a volte viene la voglia di spegnere tutto o di fare un salto indietro di qualche anno: all’epoca (nemmeno poi tanto lontana) in cui la cassa di risonanza per le idiozie era limitata e non esisteva la possibilità

di dire o scrivere al mondo tutto quel che passa per la testa. Spegnete un po’ il web, per piacere, che voglio scendere. Perché non ho voglia di stare su una giostra in cui vale tutto, in cui vale anche far festa per la morte di un ragazzo di vent’anni.
Edoardo Baccin aveva dei sogni, aveva un papà e una mamma, aveva degli amici e probabilmente anche una fidanzata (perché era anche un bel ragazzo).
Edoardo Baccin è morto travolto da un treno in corsa in una notte d’agosto. Edoardo Baccin era un writer, e l’intento di chi scrive non è quello di dividere ulteriormente chi pensa che i loro graffiti siano opere d’arte e chi invece li considera forme di inciviltà. Ci limitiamo a dire che a volte quei disegni così colorati sono belli e impreziosiscono angoli di città altrimenti bui, e che allo stesso tempo ci dà fastidio quando la loro vena artistica imbratta treni, vagoni della metropolitana o i muri delle case.
Nel riguardare le due pagine che la Provincia di Varese ha dedicato alla tragica morte di Edoardo emergeva, oltre al dolore, il colore: erano due pagine colorate. E ci viene da pensare che il colore sia sempre meglio del grigio: sempre. Ma non è questo il punto, non stavolta.
Il punto è che l’odio del web si è riversato su questa tragedia senza fare prigionieri, senza filtri e senza pietà: ma a che punto siamo arrivati? Il punto è che tutti quanti, con la potenza di un click, si sentono in dovere di dire qualsiasi cosa e soprattutto in diritto di non pensare alle conseguenze. Ballare sul cadavere di un ragazzo è becero, vergognoso e inaccettabile: e non è il filtro di un social network a renderlo meno grave, anzi. Sputare sul dolore, sentenziare sul sangue, mancare di rispetto a chi sta male è un esercizio pericoloso: perché crea altro dolore, perché aumenta la sofferenza.
Era successo così anche in occasione della vicenda di Greta e Vanessa, sequestrate in Siria e seppellite sotto kilobyte di insulti (e auguri di morte o di essere stuprate, ricordate?) sul web. Tanto che poi era diventato impossibile non schierarsi con quelle due ragazze, al di là di come la si pensasse sulla faccenda.
Spegnete il web, per favore. Perché anche stavolta si è andati oltre e si è superato il limite. Perché mentre la nostra Simona Carnaghi consumava le scarpe rincorrendo le testimonianze degli amici di Edo e raccoglieva il dolore della sua famiglia, noi davanti allo schermo del pc eravamo costretti a incontrare i messaggi di giubilo di quelli che festeggiavano la morte di un writer (comunque ve la vedrete con la digos, signori).
Chi si occupa di comunicazione deve, vivaddio, seguire delle regole e la regola più importante è allo stesso tempo la più semplice: “Quando vi occupate di un fattaccio di cronaca, scrivete come se il protagonista fosse vostro padre o vostro figlio”. Ecco: anche chi si diletta a sparare sentenze su internet pensando di essere protetto dallo schermo di un computer dovrebbe iniziare a seguire la stessa regola. Quell’idea di libertà totale, che permette di sputare sul dolore di un ragazzo morto, personalmente ci fa paura. Anzi, ci fa schifo.