Aspettiamo Vavassori, ma noi abbiamo un’anima. Si chiama varesinità. E nessuno può toccarla

Il commento del direttore Andrea Confalonieri

Sul campo ci sono persone che stimiamo, Vavassori da una parte (non abbiamo, però, il piacere di conoscere il possibile direttore generale o sportivo Ferrara con i suoi uomini che vorrebbe introdurre nel Varese) e gli attuali dirigenti biancorossi dall’altra, ma c’è qualcosa che va messo davanti perfino all’amicizia e alla storia personale del primo o dei secondi.
Questo qualcosa si può chiamare in diversi modi: valori, appartenenza, radici, varesinità, storia, purezza.
Il Varese è

unico e diverso da qualunque altra squadra, in un certo senso è una “bestia selvaggia”, perché ottiene tutto dal nulla quando in campo e dietro le quinte è animato da fede, idee, spirito varesini (da Borghi a Maroso, da Marotta a Orrigoni, da Milanese a Sogliano) e subisce rovesci clamorosi – perdendo in un soffio perfino la vita – se gli “stranieri” impiantano un’anima diversa da quella incarnata dai figli del Franco Ossola. Il presidente Colantuoni o il primo Rosati fanno storia a sé perché si fidarono ciecamente nell’organizzazione della società dei ragazzi di Giubiano come Limido (il primo) o di quelli del Bosto come Sean Sogliano (il secondo). Erano i padroni che mettevano i soldi, ma l’anima e la guida (se non tecnica, almeno dirigenziale) erano più varesine che più varesine non si poteva.

Pietro Vavassori non è lontano dall’essere uno di noi, sia per le sue radici che per lo spirito pragmatico, essenziale, puro e vincente che lo anima, ma perderebbe la sfida prima ancora di averla iniziata se impiantasse un’anima diversa da quella che ha fatto rinascere questa società molte volte dal nulla. Può indicare in Ferrara il suo uomo di fiducia da introdurre in società, ma Ferrara non può e non deve pretendere di punto in bianco che altri uomini da lui indicati (team manager, capo scouting, segretario o chi per essi) sostituiscano il nocciolo duro del Varese. Altrimenti saremmo rinati dall’Eccellenza per nulla e avremmo girato i campetti sperduti della Lombardia spinti da quei valori che si chiamano varesinità – in società e sul campo – che non si possono sacrificare sull’altare di nessuna cifra.

Il tifoso del Varese non cerca soltanto un padrone con i soldi ma un padrone illuminato che, attraverso quei soldi, esalti il vero motore e l’unica ragion d’essere di questa società: i figli del vivaio e i giovani come Lercara e Zazzi o Bordin, i Frontini, gli Scapini, i Sogliano, i tifosi, addirittura i Marrazzo se si fondono nella maglia perché quest’ultima li porterà a fare molti gol in più di quelli che avrebbero fatto soltanto per l’ingaggio.
Siamo pronti a tutto per avere Vavassori come patron, tranne che a una cosa: veder sostituita in toto una società e una squadra (per squadra intendiamo l’unità, la simbiosi, l’amore dirigenti-tifosi-giocatori appena ritrovati) da un’altra società e un’altra squadra che arrivano da lontano. L’anima il Varese già ce l’ha, ed è fatta dalle persone e dai tifosi che gliel’anno appena ridata, in campo e fuori: chi vuole aggiungersi a noi, è il benvenuto. Sostituirsi, però, no.