Felice Chinetti: il soldato che si fece bello per morire

Ecco a chi è dedicato lo stadio di Solbiate Arno, seconda casa del Varese.

«Gli eroi son tutti giovani e belli», cantava Francesco Guccini: e Felice Chinetti, giovane e bello, lo era per davvero. La sua è una di quelle storie che non ci possiamo permettere di perdere e che, proprio per questo, bisogna raccontare. Anche se non è sempre facile toccare le corde dei ricordi e parlare di un ragazzo morto di una morte ingiusta: come sa essere ingiusta la morte di un ragazzo di ventitré anni, come sa essere ingiusta la morte di un ragazzo ammazzato in guerra.

Felice Chinetti, per tutti noi malati di sport e pallone, è lo stadio di Solbiate Arno. La seconda casa del Varese, il campo sul quale tra due giorni si potrebbe festeggiare la promozione in D. Ma dietro a quel nome c’è il racconto di una vita, che il nipote Giuseppe è venuto a portarci in redazione insieme a suo figlio Paolo. «Fatico a parlare di queste cose – ci anticipa – e non lo faccio volentieri».

E allora quello del signor Giuseppe è davvero un regalo, fatto a noi e fatto alla storia, prezioso e bello. «Felice – racconta – era mio zio, il fratello di mio papà Carlo. Nato nel 1921 e partito per la guerra a diciotto anni, di lui ho pochi ricordi: quello di quando mi fece fare un capitombolo mentre mi portava seduto sulla canna della sua bicicletta, e quello di quando mi accompagnò dal barbiere e io piansi tutte le mie lacrime di fronte a quella macchinetta infernale che tagliava i capelli strappandoli via».
Perché Giuseppe, suo zio Felice, l’ha potuto vedere poche volte: tornato a casa per qualche licenza, ucciso dai tedeschi nella battaglia di Filottrano. «Era un paracadutista della Folgore, reggimento “Nembo”. Dopo la presa di Roma nel 1944, gli Alleati risalivano lentamente l’Italia con i tedeschi che arretravano. C’erano due fronti: quello tirrenico dove c’erano gli americani e quello adriatico, con inglesi e polacchi. Filottrano, vicino ad Ancona, era considerato un punto strategico: lì venne combattuta una battaglia storica durata dall’1 al 9 luglio del ’44. Lo zio Felice venne ucciso l’8 luglio».

L’episodio della sua morte è raccontato in un passo del libro “La battaglia di Filottrano” di Giovanni Santarelli: parole che fan venire la pelle d’oca a noi, figuriamoci che effetto devono fare al signor Giuseppe e al figlio Paolo.
Eccole. “…un giorno, credo il 7 luglio, vedemmo sbucare dalla collina che sovrastava la zona, svelti e furtivi, degli uomini armati. Erano paracadutisti italiani e indossavano strane uniformi, con pantaloncini corti e camicia coloniale. Subito mia madre e la signora Giulia Belelli offrirono da bere a quei giovani sudati, assetati e stanchi. Ad un tratto uno di loro fece una strana richiesta; voleva il necessario per radersi. Mio padre si offerse di prestargli l’occorrente e salì in casa a prenderlo. Il giovane prese una di quelle casse di legno che i nostri contadini usano durante la vendemmia, la capovolse ed iniziò così il suo lavoro. Io, da un lato, osservavo timidamente. Guardavo lui e ammiravo le lucenti armi appoggiate al muro; sembravano riposare, stanche di tanto fuoco. Procedendo nel suo lavoro, il soldato cantava sommessamente. Ad un tratto gli chiesi: “Perché ti fai la barba?” e lui, senza scomporsi: “Per andare a morire!”. Terminata la rasatura, il giovane partì di corsa e raggiunse i suoi compagni, allontanandosi con loro in ordine sparso in direzione di Filottrano. Venne la sera e la pattuglia fece ritorno. Si seppe così che quattro paracadutisti erano rimasti lassù, falciati dalle raffiche nemiche. Tra questi c’era anche il soldato che io avevo ammirato mentre si radeva. Si chiamava Felice Chinetti”. Felice venne sepolto lì, a Filottrano, ma ora riposa nel cimitero di Solbiate: e la sua famiglia ha conservato con silenziosa gelosia i ricordi di quel ragazzo troppo bello e troppo giovane per morire. «Mia sorella Adele ha tenuto tutto la medaglia d’argento al valor militare, il suo fischietto, tutte le lettere.Le sono state passate dalla mamma Oliva, che a Felice voleva bene come a un figlio».

E lo stadio di Solbiate? «Mio papà Carlo – racconta Giuseppe Chinetti – è stato il centravanti della Solbiatese: era uno che dava tutto, e quando sbagliava un gol facile si arrabbiava così tanto che mangiava l’erba. Il campo sportivo lo progettai io insieme al mio cugino Vittorio Belli, geometra, nei primi anni ’50. Quante fascine e quanta ghiaia abbiamo scaricato sotto quel prato, e infatti ancora oggi è un fondo eccezionale: filtra benissimo e ai giocatori piace. Pensate che prima di far nascere Milanello, il Milan veniva al Chinetti per allenamenti e amichevoli».
Ma perché è stato intitolato a Felice Chinetti? «Non lo so – dice il signor Giuseppe – è stato quasi naturale, quasi ovvio. Qui a Solbiate tutti conoscevano Felice, era un po’ il bello del paese».
E allora, adesso, ci piace pensare che il nome Chinetti alla gente non richiamerà soltanto lo stadio di Solbiate, la seconda casa del Varese, il campo della possibile promozione. Dopo aver ascoltato questa storia, il nome Chinetti sarà quello di un ragazzo che ha sacrificato vita e sogni per qualcosa di più grande. E resta la domanda se davvero ce lo stiamo meritando, il sacrificio di Felice e di quelli come lui.