«Gianni Garbelli il Fighter d’Italia. Lui era mio padre e ve lo racconto»

Boxe - Questa sera alla Feltrinelli (18) Gianna Garbelli presenta il libro scritto per ricordare il grandissimo pugile

Un campione dalla grande anima, un funambolo del ring, un uomo dalla vita tanto avventurosa e poetica da farsi cinema e romanzo. Semplicemente, Giancarlo Garbelli, uno dei più grandi pugili italiani di sempre. Oggi alle 18, alla libreria Feltrinelli di Varese, Gianna Garbelli – figlia del campione scomparso nel marzo 2013 all’età di 81 anni – presenterà “Il fighter d’Italia” (RaiEri), la biografia-romanzo che la Garbelli – scrittrice, attrice, regista, esperta di boxe – ha dedicato alla figura del padre.

Un libro intenso, dalla scrittura coinvolgente, impregnato di racconti e immagini, tanto da meritare l’ingresso tra i sei finalisti del 53° Premio Bancarella Sport. “The Fighter”: il guerriero, il lottatore. Fu il grande Gianni Brera a coniare questo soprannome. «Garbelli è il vero fighter – scrisse Brera – Alla boxe si va per veder picchiare, non per sdilinquirsi ai surrogati della scherma». E Garbelli picchiava, eccome. Ha combattuto nei pesi leggeri, welter, medi, dal 1952 al 1963: 99 match totali,

con un record di 74 vittorie (26 delle quali per ko), 14 sconfitte e 11 pari. Mai finito al tappeto, mai battuto per ko. «Il più grande campione di boxe che l’Italia abbia mai avuto – racconta la figlia Gianna – Questo libro è l’avventura di una vita straordinaria, 454 pagine che attraversano tanta parte della storia del pugilato italiano, considerando che la boxe nel nostro paese nasce nel 1916, a Milano, e mio nonno Cesare vinse il campionato italiano nel ’26». Già, perché Giancarlo Garbelli era figlio d’arte. «Il dolore, papà, l’ha conosciuto subito, quando gli hanno ammazzato il papà durante la seconda guerra mondiale – ricorda Gianna – Ma Giancarlo non ha mai provato sentimenti di vendetta, di rancore. È andato a emulare suo padre sul ring, lo cercava lì, nella boxe». Già, il dolore, un compagno fedele con cui chi fa il pugile deve convivere: «Giancarlo non sfuggiva il dolore. Lo reputava il migliore degli insegnamenti. Serve per crescere, ripeteva. Non è piacevole da attraversare, ma quando ne esci sei più forte: sì, il male serve». Il dolore fisico e quello dell’anima, così spesso intrecciati: «Il pugilato è violento perché chi sale sul ring ci va da solo a pigliare colpi veri, nessuno può rimpiazzarlo. Sei tu e il tuo avversario, uno di fronte all’altro. “A chi muore prima” diceva mio padre. È uno sport che ha il rischio nella propria essenza. Ma finito il match, i due pugili si rispettano, solidarizzano, si abbracciano. In questo senso la violenza non è pugilato: la violenza è l’Isis, il terrorismo, la distruzione delle opere d’arte».

Furia bruta che non conosce codici, né regole. Il pugilato, no, i codici li conosce eccome, e li rispetta. Da quando esiste. Scriveva Virgilio nel 70 a.C.: “Se pensi alla gloria, se tanta forza nel petto credi di avere, osa, offri il petto con i guanti allacciati, i pugni in guardia, tu gran coraggioso”. E non a caso, da sempre la boxe ispira giganti della letteratura, della musica del cinema: «Le librerie dei paesi anglosassoni sono piene dei libri scritti dai boxing writers, i cantori della boxe – osserva Gianna Garbelli – Da noi no. E con questo lavoro cerco anche di colmare un vuoto tutto italiano». Un volume denso, in cui la scrittura sa farsi immagine e cinema. Sembra di vederlo, il Guerriero, mentre attacca l’avversario dalla media distanza, la più difficile, perché non hai respiro; mentre affonda la sua specialità, il colpo al fegato, un colpo da maestro, che ti mette ko senza speranza. Oppure quando provoca il rivale tenendo le mani basse, un gesto che ha inventato lui. Veder combattere Garbelli era quasi uno sport a sua volta, ti obbligava a muovere corpo e sguardo, fin quando il Fighter si sedeva nell’angolo a fine round. Solo lì potevi prendere respiro: «Papà era spettacolare, un funambolo del ring, un artista, nato col talento del campione di boxe. Del resto, fuoriclasse del ring si nasce, non si diventa. Eravamo molto complici, io e lui, bastava un’occhiata per capirci. Severo quand’era il caso, non faceva passare le marachelle che combinavo da piccola. Quando sono cresciuta, è diventato il mio miglior amico. E lo è ancora, anche se è morto tre anni fa». Nonostante fosse un fenomeno del ring, non ebbe mai la possibilità di combattere per il titolo mondiale: colpa della mafia americana, che si mise di traverso, come racconta Gianna Garbelli in uno dei capitoli più epici e cinematografici del libro.

Artista Garbelli, lo era anche nella vita, non solo sul ring: «Mi ha fatto conoscere l’architettura – continua l’autrice – a casa passavano scultori, registi, pittori. Lui stesso è stato pittore, amatissimo dagli intellettuali, da Giorgio Strehler a Enzo Biagi, a Giancarlo Fusco, il giornalista amico di una vita».L’avventurosa vita di Garbelli si intreccia a doppio filo con la nostra Varese. «Io stessa, pur essendo milanese, sono nata a Varese – racconta ancora la figlia del campione – Mio papà ha abitato in una magnifica villa liberty a Cadegliano, in Valganna. Nel libro racconto anche la meravigliosa storia d’amore tra papà e mia mamma, la Valganna, i sapori del Varesotto». Ed è davvero gustoso, imperdibile per gli appassionati di storia varesina, il racconto dell’amicizia di Garbelli con “il Cumenda” Giovanni Borghi, che scelse proprio il Fighter come “testimonial” della Ignis. «Un grande visionario, il commendator Borghi, uno dei primi a vedere nello sport un formidabile veicolo pubblicitario per la sua azienda». Il titolo mondiale mai vinto a causa della mafia italo-americana è arrivato ad honorem, dopo la morte: e ora sulla corona della WBC, accanto ai volti di Josè Sulaiman, Joe Louis e Muhammad Ali, c’è anche il viso di Giancarlo Garbelli, il pugile filosofo, il Fighter d’Italia che nessuno ha mai messo ko.