Intolleranze alimentari. Miti da sfatare o dura realtà?

Per risolvere il problema consigliata una dieta a basso contenuto di allergeni per due settimane

Stanchezza, cefalea, difficoltà di concentrazione e dolore o gonfiore addominale. Tutti segnali che possono far pensare a un’intolleranza alimentare. Panico. Poi uno o due test nel laboratorio sotto casa o persino in farmacia e il verdetto: intollerante a… E giù una lista di alimenti. Che si eliminano prontamente dalla dieta, così si perde anche un po’ di peso e ci si sente meglio.

Fatto che, ovviamente, avvalora l’ipotesi iniziale e conferma l’autodiagnosi. Tra tutte le intolleranze possibili – va forte quella a lieviti e latticini – regna incontrastata quella al glutine non celiaca (Ncgs), suffragata da testimonial e siti internet che dipingono il glutine come causa di ogni possibile male. Basti pensare che un americano su quattro ha rinunciato spontaneamente agli alimenti normali, spingendo il mercato dei prodotti gluten free l’anno scorso a quasi 12 miliardi di dollari,

in aumento. Il punto è che non c’è un test di laboratorio specifico, ed è dunque difficile fare una diagnosi. Difficile ma non impossibile. «Il primo passo dovrebbe essere quello di escludere alcune patologie come celiachia, intolleranza al lattosio, malattie infiammatorie e parassitosi intestinali – premette Antonio Craxì, presidente Sige, società italiana di gastroscopia ed endoscopia digestiva – che costituiscono il 95 per cento delle cause organiche dei sintomi lamentati. Solo dopo si possono indagare le intolleranze, con l’unico mezzo a disposizione che abbiamo: le diete di esclusione».

Si parte, dunque, con una dieta a basso contenuto di allergeni per circa due settimane. Partendo da prodotti crudi. Permessi riso e derivati, carne d’agnello, pesce, oli vegetali, prevalentemente d’oliva, frutta e verdura. Vietati gli alimenti più frequentemente oggetto di reazioni: latte vaccino, crostacei, alcuni legumi, uova, agrumi e fragole, cacao e derivati, frutta a guscio, carne bovina e avicola, tutti i prodotti industriali. Se dopo questa dieta i sintomi sono regrediti, si comincia a reintrodurre alcuni alimenti, partendo da quelli segnalati dal paziente stesso come potenzialmente responsabili di una reazione. «È un procedimento empirico e non facile intanto perché richiede moltissimo tempo, anche anni, poiché si introduce un alimento per volta, e poi perché si sovrappone un fortissimo effetto placebo: se il paziente è convinto che un alimento gli faccia male, avrà dei sintomi in ogni caso. Eppure questa è l’unica strada perché anche i prick test con gli alimenti dimostrano una reattività cutanea, ma non ci sono prove che si verifichi analoga reazione gastrointestinale». Nel caso della sensibilità al glutine non celiaca, per esempio, se i sintomi dovessero presentarsi dopo aver mangiato degli alimenti a base di grano, bisognerebbe considerarla una diagnosi transitoria. Tra le intolleranze più comuni ci sono quelle al lattosio, dovute a carenza di enzima lattasi o secondaria ad infezioni intestinali e diagnosticabile con Breath test, ma anche il favismo, che è un deficit enzimatico.