Il Capodanno di una volta

Un viaggio nella cucina e nelle tradizioni varesine, attraverso le usanze tramandate fino ai giorni nostri

C’era una volta il Capodanno, a Varese. Una festa che un tempo, nella nostra realtà bucolica, fatta di anime semplici e di cose genuine, era meno sentita del Natale. Pochi fasti, molto riserbo; l’austerità degli auguri scambiati fra pochi intimi, anche quando si era re e regine, non solo lavoratori della terra, o di botteghe, imponevano festeggiamenti sobri, nell’intimità domestica. Le memorie storiche ce lo testimoniano e documentano con racconti preziosi che vogliamo regalarvi con i nostri auguri più cari.

Mariuccia Pigionatti, classe 1928, è la sorella di “don Pigio”, quel Tarcisio Pigionatti che, assieme a tante altre cose, fu anche il fondatore del Collegio De Filippi: nel 2017 ricorrono i vent’anni dalla scomparsa. Abitavano, i Pigionatti, in via Brunico, e il loro ingresso era quello dei Molina, dei quali papà Carlo era il fattore: il numero venticinque. «Era una cosa normalissima, nel periodo della guerra, festeggiare con poco. Non mi ricordo di allestimenti particolari: c’era

quel che c’era, dei nostri orti e della fattoria. A Capodanno si mangiavano cose del pollaio, si gustavano i capponi campagnoli arrostiti, che stavano ore e ore sulla cucina economica perché non esisteva il gas: mi ricordo ancora quel bel profumo di spezie, il rosmarino, il bel colore dorato dei polli. Era, tutto il periodo delle feste, quello dove si aspettavano i mandarini, i torroni, tutte le cose che allora erano un po’ fuori dall’usuale. Invitavamo gli amici di famiglia alla nostra tavolata e preparavamo le lenticchie col cotechino, che si cuoceva lento, nella cenere del camino: un’usanza dei vecchi che veramente era tipica prima di tutto del giorno di Natale. Era anche il periodo dei cavoli, che mettevano sotto le stoppie del granoturco perché gelassero e fossero più teneri da mangiare: quello che voi chiamate parco Molina una volta aveva una parte agricola con coltivazioni di cavoli e patate, e poi c’era la fossa delle stalle, in fondo. Si andava in chiesa a Biumo, in casa mia era d’obbligo. Il periodo della guerra, in particolare, fu triste, limitato in tutto. Nemmeno a Villa Molina si facevano grandi feste: erano persone molto riservate, con donna Luisetta che, nascosta per tanta parte dell’anno, appariva mite con la sua lunga treccia dorata che girava attorno alla testa. Ma era il primo giorno dell’anno».

Marinella Lonati, 66 anni, è la memoria storica di Santa Maria del Monte: il suo bisnonno aveva la Locanda del Moro, dal 1500 la seconda locanda per importanza al Sacro Monte, in via Beata Caterina Moriggi, l’unica casa rossa del Sacro Monte. «Era stata dipinta nel Seicento – racconta – assieme alle altre case ma è l’unica i cui colori sono rimasti visibili. Le cose che so mi sono state dette da una mia prozia con cui ho dormito per tanti anni, la zia Clotilde. I miei genitori avevano il bar più antico del Sacro Monte, sempre in via Caterina Moriggi, quello dove si facevano i mostazzitt, e siccome quando hanno chiuso la funicolare nel ‘53 la gente si è spostata sul piazzale Pogliaghi e non passava più in centro al paese, nel ‘66 ci siamo spostati in via dell’Assunzione: io ho condotto il bar del Pino, o bar Lonati, fino a quando ha chiuso vent’anni fa».

Il Capodanno e il Natale di Marinella bambina non erano certo quelli di adesso. «Mi ricordo alcuni piatti che si facevano solo per queste feste: a Natale, ad esempio, le interiora degli animali – il fegato, il cuore, i polmoni, insomma le frattaglie – fritte con l’uovo e il pangrattato in olio di semi. La mia nonna aveva poi l’abilità di fare i croccanti meravigliosi che aveva imparato dai suoi zii della locanda, fatti con le mandorle, lo zucchero caramellato e la buccia del limone. E c’era anche il dolce di Sant’Agostino, che veniva recuperato dalla festa di fine agosto quando lo si impastava con lo zucchero, l’albume e le mandorle: un impasto che la zia stendeva con il mattarello con sopra lo straccio, ritagliava in tanti rombi, lasciava asciugare e conservava nelle scatole di latta. Il primo dell’anno, invece, era d’obbligo il risotto col brodo di cappone, anche se per tutto il periodo delle feste facevamo anche quello con la zucca. Poi c’era la frittura piccata, una delizia di secondo la cui base era la carne di vitello. Veniva infarinata a fettine, fatta rosolare nel burro, bagnata con vino bianco molto profumato e poi, quando il vino era evaporato, si tirava con il brodo e si lasciava cuocere a fuoco lento per un bel po’. Quando il sughetto si addensava lo si metteva da parte (si faceva tutto sulle stufe), si aggiungeva prezzemolo e aglio e lo si lasciava riposare per un quarto d’ora: si serviva su un letto di purè: era la specialità della Locanda del Moro. Il panettone arrivò solo negli anni Cinquanta: prima di allora la mia zia faceva la torta con le prugne aspre, ed era il dolce di pasta frolla tipico del Capodanno».