Quelli che dicono: «Sai che novità il divano del produttore…»

L’editoriale di Laura Campiglio

Mentre Hollywood brucia e il mondo segue la caduta di Harvey Weinstein con il voyeurismo che si riserva al potente nel fango, mentre ci si interroga sugli esiti della guerra fratricida nella mecca del cinema e soprattutto mentre quello che era un caso di cronaca si è trasformato in un risveglio di coscienza collettivo riguardo la violenza di genere con lo spaventoso, titanico sommerso di denunce sotto l’hashtag #MeToo, in Italia il dibattito sull’affaire Weinstein sembra arenato su due zavorre concettuali: la moralità

di Asia Argento (considerata vittima in tutto il mondo e imputata a casa sua) e il fatto che “sai che scoperta, i produttori che chiedono favori sessuali alle attrici”. Non volendo neanche abbordare il primo tema (che con l’appassionante diatriba “deve o non deve Asia Argento trasferirsi all’estero?” si spera di poter considerare in via di esaurimento), più interessante è cercare di penetrare il pensiero di quelli che si trincerano laconicamente dietro il “si è sempre fatto”. Al di là della consueta orgia di commenti sui social, anche le più autorevoli voci del giornalismo cinematografico si sono affrettate a precisare che il ricatto sessuale per l’assegnazione dei ruoli è prassi invalsa da che il cinema esiste: tra tutti, il pezzo icastico di Marco Giusti per Dagospia, che ha raccontato il divano del produttore da Luchino Visconti a Weinstein passando per Carlo Ponti e tutti quei registi che nella gloriosa epoca degli spaghetti western si presentavano sul set con le due domande fondamentali “do’ se magna” e “do’ se scopa”. “Piccole grandi violenze quotidiane di un cinema fatto dai maschi per i maschi”, ammette Giusti. E in molti l’hanno citato per dire, vedete? È sempre accaduto.

Sì, ma dove va a parare la pura e semplice constatazione che “si è sempre fatto”? Si è sempre fatto quindi è ora di finirla, oppure si è sempre fatto quindi tanto vale continuare? Perché signori, capiamoci: ogni sopruso, piccolo o grande che sia, è procedura corrente prima che qualcuno si decida a scardinarla, e quando l’abuso è una condotta sistematica, così incancrenita da sembrare perversamente normale, è sempre dalla denuncia numero uno che si parte per cambiare le cose.

Ecco, solitamente la denuncia numero uno viene accolta con un liberatorio moto di trionfo: si pensi al caso dei baroni all’università di Firenze. Che in certi atenei le cattedre sembrino assegnate per diritto divino e i docenti trattino i dipartimenti come dei loro personalissimi feudi è cosa fin troppo nota. Nondimeno l’opinione pubblica ha acclamato festosamente l’inchiesta della Guardia di Finanza sui concorsi truccati con relativi arresti.

Nel caso delle attrici molestate, invece, è diverso: nella pronta sollecitudine con cui si ricorda che il ricatto sessuale, per quanto poco nobile, è sempre esistito, si coglie come una nota sbrigativa, una malcelata voglia di chiudere la questione e passare ad altro. Quel “si è sempre fatto così” suona come la giustificazione autoassolutoria di chi anche solo inconsciamente si schiera con il predatore. E magari ha sempre sognato di averceli lui, un divano e il potere di usarlo.