«Sono responsabile, non un guastafeste». E l’autore potrebbe essere una donna

L’avvocato Vittorini «pronto a testimoniare». Lo farà, ma non subito

«Benissimo, sono pronto a testimoniare». E la storia processuale di potrebbe assumere i contorni di quella del “biondino di piazzale Lotto”. L’avvocato è il legale che ha inviato una lettera alla corte d’assise davanti alla quale ieri è comparso Stefano Binda, 50 anni di Brebbia, accusato di aver ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi, nella quale informa (anche difensori e procura generale) di rappresentare una persona che scagiona Binda dall’essere l’autore della lettera anonima “In morte di un’amica” assumendosene la paternità, risponde conciso quando ieri viene raggiunto telefonicamente.

Su chi sia il cliente che rappresenta non rivela nulla: «Segreto professionale». Dice però una cosa interessante quando ci si riferisce all’assistito usando il maschile: «Ho parlato – dice Vittorini – di una persona di cui non ho declinato il nome, né al maschile, né al femminile». Il cliente dunque potrebbe anche essere una donna.

Cliente la cui buona fede è certa per Vittorini: «Non faccio di mestiere il guastafeste. Mi sono assunto una responsabilità. Gradirei moltissimo che venisse rispettata la serietà dell’atto che mi sono assunto. Se mi vogliono sentire sono pronto, se non lo si vuole, qualcuno se ne assumerà la responsabilità». La corte ha poi accolto, anche se in parte, la richiesta dei difensori di Binda. Vittorini sarà ascoltato in seno al processo, ma non il 28 aprile, come primo teste come chiesto dai difensori.

Esposito motiva la richiesta: «La lettera “In morte di un’amica” è uno dei punti cardine dell’accusa. Un teste che è pronto a testimoniare che non fu Binda a scrivere la missiva ma sembra di estrema rilevanza. Ascoltarlo tra sei mesi significa quasi metterne in dubbio la rilevanza».

Vittorini, nella lettera inviata, lascia intendere che rispetterà il segreto professionale non rivelando dunque il nome del cliente. E si torna al “biondino di piazzale Lotto”. Milano 1967, 20 prima del delitto Macchi. Nella notte tra il 9 e il 10 febbraio una benzinaio fu ucciso durante una rapina. Il ladro, descritto da un testimone, è un “biondino” di un metro e ottanta, con ciuffo, cappotto marrone e borsa in mano. Subito viene diffuso un identikit, al quale segue un arresto. A San Vittore finisce un bighellone senza arte né parte, un pregiudicato noto frequentatore dei bar della zona, un amante del flipper. Si chiamava . Che nega di essere l’assassino.

Dal giorno dell’arresto e per oltre due anni la sua vita viene scandagliata. Si leggono i diari, si ricostruisce il passato, si tira in ballo una cuginetta, si diagnostica un mal di testa come “shock da delitto”. Si trova pure una fidanzata che ne testimonia le defaillance sessuali. E lo si definisce «una personalità psicopatica di tipo misto, istrionico e mito-maniacale», «un delinquente per tendenza», con una «predisposizione fisiologica al crimine». Si arriva al processo che viaggia dritto verso una condanna.

Finché, durante una delle ultime udienze, un avvocato molto stimato, , padre dell’ex sindaco di Milano e del nuovo Codice, invia un telegramma: «Prego sospendere il processo e attendere mio arrivo a Milano. Chiedo di essere ascoltato onde evitare un errore giudiziario». Occupandosi di un altro processo, il noto avvocato è venuto a conoscenza di una verità che, per ragioni professionali, non può dire. Per Virgilio bastò la sua parola. L’assassino, anzi gli assassini, erano infatti tre neofascisti, i quali, si saprà dopo, volevano finanziare la svolta reazionaria dello Stato con i soldi di un benzinaio. Certo all’epoca un confronto di Dna era impensabile.