Stefano Binda. Le prove perse per sempre?

La sconcertante verità dei medici legali in aula: il materiale decisivo abbandonato in Inghilterra

Vetrini spariti, spatole “irreperibili”, prove perdute. Probabilmente per sempre. Perché? E a chi attribuire la responsabilità di una “mancanza” che potrebbe compromettere la possibilità per una madre di sapere la verità su chi ha ucciso sua figlia? Quello che circonda la “trattazione” dei reperti contenenti il Dna dell’assassino di è un giallo che avanza di pari passo con quello enorme che da 30 anni non dà pace a Varese: chi l’ha uccisa?

Davanti alla Corte d’Assise presieduta da siede, come imputato , 50 anni di Brebbia, compagno di liceo di Lidia, arrestato il 15 gennaio 2016, 29 anni dopo il delitto, con l’accusa di aver assassinato la studentessa varesina di 20 anni nella notte tra il 5 e il 6 gennaio del 1987.

Un mistero quello dell’uccisione della ragazza che avrebbe potuto avere una chiave certa sin da allora. Ieri, infatti, è stato ascoltato in aula , direttore dell’istituto di medicina legale dell’Università Cattolica di Roma. , direttore della medicina legale di Varese, tre giorni dopo che Lidia fu uccisa con 29 coltellate, il corpo ritrovato il 7 gennaio 1987 al limitare dei boschi del Sass Pinì di Cittiglio, raccolse in quattro vetrini 15 spermatozoi dal corpo della ragazza. Materiale biologico appartenente all’assassino. Prima che quei reperti, preziosissimi anche allora nonostante l’analisi del Dna fosse ancora agli albori, trascorse un anno. Perché? Perché quel materiale biologico non fu immediatamente analizzato.

Fu il giudice istruttore, nel 1988, a mettere fine a quell’attesa, a dare impulso a quell’indagine su un omicidio che era ferita aperta per tutta la comunità varesina.

I quattro vetrini furono “spatolati” per raccogliere il materiale in due provette portate per l’estrazione del Dna in Gran Bretagna, al laboratorio “Ici Cellmark” di Abington, che già disponeva, fra l’altro, di sonde molecolari. La risposta, mesi dopo, fu che il materiale era troppo scarso per ottenerne il Dna. In sostanza, sarebbe stato più opportuno mettere a disposizione i vetrini.

A questo punto, fu impossibile ogni comparazione con le quattro persone che, nell’aprile dell’88, si sono sottoposte volontariamente al test. Meno di un anno dopo negli Stati Uniti fu perfezionata una nuova tecnologia che avrebbe consentito quella comparazione. Nessuno, però, vi fece ricorso. Nessuno pensò a un secondo tentativo. E ieri è emersa, dalle parole di Pascali, una verità sconcertante: ogni reperto biologico relativo al caso Macchi, è andato distrutto o smarrito. Nessuno reclamò le provette mandate in Inghilterra. Sono ancora là? C’è, oltre oceano, la possibilità che dopo 30 anni vi sia ancora traccia dell’assassino di Lidia? Perché quelle provette furono lasciate in Inghilterra? Interrogativi che ieri , legale della famiglia Macchi, ha sollevato in modo preciso e puntuale.