Attesa e diffidenza per il discorso di Obama al Cairo


Il Cairo, 10 mag. (Apcom)
– Diffidenza, speranza e attesa.
Contrastanti e intrecciati, sono questi gli stati d’animo che
attraversano l’opinione pubblica araba all’indomani dell’annuncio
dell’imminente visita del presidente degli Stati uniti d’America,
Barack Obama, prevista per il prossimo 4 giugno al Cairo.

L’amministrazione Obama ha scelto la capitale egiziana,
preferendola a Istanbul come inizialmente lasciato intendere, in
qualità di palco privilegiato da cui presentare al mondo la nuova
visione politica americana in Medio oriente. E soprattutto da cui
rivolgere ai paesi arabi e musulmani un messaggio di distensione
e apertura, dopo l’era di George Bush junior, conclusasi in
concomitanza dell’operazione militare israeliana Piombo fuso
nella Striscia di Gaza.

Dal punto di vista egiziano, la scelta di Washington non fa che
rafforzare la posizione del Cairo sulla scena internazionale e i
legami fra le due capitali.

A 30 anni dalla storica visita del presidente egiziano Anwar El
Sadat a Gerusalemme, cui fece seguito la firma del trattato di
pace fra Egitto e Israele, la repubblica araba nordafricana
conferma così il proprio ruolo di “valvola di sicurezza” nella
regione, come definita nel 2004 dalla precedente amministrazione
americana.

Mediatore accreditato presso entrambe le parti nel processo di
pace fra palestinesi e israeliani, interlocutore e alleato
politico privilegiato per Stati uniti e Unione europea, membro di
primo piano della Lega degli Stati arabi, l’Egitto non ha mai
fatto mancare agli Stati uniti il proprio sostegno, nonostante
frequenti prese di distanza – formali, non sostanziali – dalla
politica estera statunitense da parte della presidenza di Hosni
Mubarak, in particolar modo dopo l’11 settembre 2001.
Nei fatti, da un punto di vista strettamente militare, Il Cairo
non ha rifiutato agli Stati uniti d’America il supporto delle
proprie truppe in Kuwait, nel 1990, per far fronte all’invasione
irachena – anche a costo di costringere i propri soldati a
combattere contro altri egiziani, emigrati in Iraq – né in
Bosnia, Somalia, Timor Est e nelle missioni di pace nel Sahara
meridionale.

Dopo gli attentati alle Torri gemelle di New York, Il Cairo ha
collaborato fattivamente alle indagini – diventando anche meta di
operazioni di rendition – sul terrorismo internazionale.
Infine, più di recente, l’Egitto ha condannato apertamente le
scelte dell’Hezbollah libanese, nell’estate del 2006, e di quella
parte di resistenza palestinese che fa capo ad Hamas, attirandosi
le critiche di un’ampia fetta di opinione pubblica araba, e non
solo. Fino a rischiare di passare per alleato di Israele contro i
fratelli palestinesi.

Ma pronunciando il proprio discorso al Cairo, il presidente
Obama ufficializzerà anche il ruolo dell’Egitto in seno ai paesi
a maggioranza islamica, in particolar modo sunnita. A maggior
ragione se avesse un seguito, nei prossimi giorni, l’invito
rivolto a Obama dalle massime cariche della moschea universitaria
di Al Azhar affinché il presidente tenga il proprio discorso
presso l’ateneo punto di riferimento della Sunna mondiale.

Per Obama, una scelta del genere potrebbe rivelarsi insidiosa,
facendo scivolare troppo bruscamente la sua visita dal piano
politico a quello religioso. Una situazione opposta e speculare
rispetto a quella del Santo padre in Terra santa. Il viaggio di
Benedetto XVI, già di per sé delicato in termini di dialogo
interreligioso, potrebbe avere implicazioni politiche nel caso in
cui il Santo padre fosse spinto a prendere apertamente una
posizione rispetto alla questione israelo-palestinese.

Ho dei dubbi sul fatto che il presidente americano accetti di
parlare ad Al Azhar – sostiene Rashwan Diaa, analista politico
del Centro studi politici Ahram del Cairo, intervistato da Apcom
nella capitale egiziana – anche se vorrei sottolineare che si
tratta di un’istituzione unica nel panorama dell’Islam, con un
peso scientifico e politico che trascende la dimensione religiosa
sunnita”. Per questo, secondo il ricercatore, esperto di
movimenti islamisti, il rischio per Obama di “entrare troppo in
questioni religiose non sussisterebbe”.

Rimane il fatto che “nello scegliere Il Cairo come teatro del
proprio discorso – aggiunge Rashwan – l’amministrazione americana
ha ben presente le implicazioni politico-religiose. Istanbul è
troppo vicina all’Europa per essere la sede di un discorso sul
Medio oriente e non è coinvolta nel processo di pace come
l’Egitto. Quindi, Non sono sorpreso dalla scelta”.
Poi prosegue: “Nessuno fino ad ora può dire di aver capito le
linee guida in politica estera di questo presidente,

mi aspetto
messaggi chiari e forti rivolti all’Iran e alla Siria. Quello che
intravedo è una manovra per rafforzare i rapporti con gli alleati
moderati, recuperare quello con l’Arabia saudita ed esercitare
una pressione su Teheran pur tendendo la mano”.
Intanto, le reazioni della Fratellanza musulmana – movimento
islamista nato in Egitto nel 1928 e unica vera opposizione
politica al regime di Hosni Mubarak – alla scelta
dell’amministrazione americana non sono favorevoli: la Guida
suprema della confraternita, Maadi El Akif, parla di “nuova
tattica per colpire la regione e dividerla in piccoli Stati”.
E dall’Iran giungono segnali contrastanti. Fino ad ora Teheran
non ha risposto positivamente ai segnali di apertura della Casa
bianca, anche se è di oggi il rilascio della giornalista
americana Roxana Saberi, di origini iraniane e doppia
cittadinanza Usa-Iran, accusata di spionaggio.

Prima del 4 giugno, Obama vedrà a Washington il neo-primo
ministro israeliano Benyamin Netanyahu, oggi in visita al Cairo.
“Non credo che, rispetto all’era Bush, si affievolirà il sostegno
a Israele – conclude Diaa Rashwan senza esitazioni – nonostante
il no secco della nuova amministrazione israeliana, espresso con
forza ieri, alla politica dei due Stati”.

Cep

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