Piccolomo, due baci al volo dalla moglie

VARESE Due baci lanciati a distanza, di nascosto dalla corte, prima di lasciare l’aula bunker e partire per il Marocco, mentre il marito di lì a poco sarebbe salito sul cellulare della polizia penitenziaria, per raggiungere il carcere di Monza. Thali Zineb si è congedata con la leggerezza e il candore di una ragazzina dal processo intentato contro il marito Giuseppe Piccolomo per l’omicidio di Carla Molinari.

Minuta, avvolta in una redingote blu notte in tinta coi pantaloni, che la fa sembrare più alta, riserva gli ultimi istanti al coniuge, che, ha raccontato ai giornalisti a margine dell’udienza di ieri, nei giorni scorsi era andata «a visitare in carcere a Monza, trovandolo depresso per quello che gli sta succedendo». Un quadretto familiare, dunque, al termine dell’udienza in Corte d’assise, che restituisce un pizzico d’umanità ad un processo per un delitto atroce, che ha sconvolto la vita tranquilla non solo di Cocquio Trevisago, ma di tutto l’Alto Varesotto, e che, in virtù di quel particolare macabro e orrorifico delle mani tagliate alla vittima e mai più ritrovate, ha avuto un’eco nazionale, costituendo quasi un unicum nella storia dei grandi delitti del nostro paese.

Thali Zineb, Zizì per i suoi cari, ha portato una ventata di gioventù in udienza, in forza dei suoi 38 anni, una ventina buona in meno del marito, e soprattutto di quel gesto affettuoso e sbarazzino che non è passato inosservato al pubblico. Eppure è una donna determinata, che ha dovuto lottare duramente nella sua vita. Era arrivata in Italia dal Marocco nel 2000 in cerca di lavoro: lo trovò proprio nel ristorante «Al Parco da Marisa», che Piccolomo gestiva con la prima moglie, Marisa Maldera. Donna della quale ha poi preso il posto accanto a Pippo appena un anno dopo la sua morte avvenuta nel 2003 in circostanze mai del tutto veramente chiarite: bruciò viva in un incidente stradale a Caravate per il quale il marito ha patteggiato una condanna ad un anno e 4 mesi per omicidio colposo.

Zizì, dunque, ha deciso di farsi interrogare per difendere il suo uomo, e per dire a tutti, di fronte alla Corte presieduta dal giudice Ottavio D’Agostino, che Pippo «non mi ha mai picchiata, né io l’ho mai visto picchiare nessuno, neanche le figlie, perché se lo avessi visto fare una cosa del genere non lo avrei mai sposato, perché a me non piacciono gli uomini che picchiano le donne, ed è la ragione per la quale non ho sposato un marocchino».

La sua testimonianza, raccolta in virtù delle domande che le hanno posto l’avvocato difensore dell’imputato, Simona Bettiati, e il pm titolare del caso, Luca Petrucci, è stata ammessa esclusivamente per permettere alla Corte di farsi un’idea di chi è Giuseppe Piccolomo. Perché lei nulla può riferire in merito all’omicidio turpe di cui è accusato il marito: era partita il 24 agosto del 2009 per il Marocco, portandosi appresso i due figlioletti avuti da Pippo, perché qui la famiglia non riusciva a tirare avanti. Nel frattempo lei in Marocco ha trovato un nuovo lavoro, come segretaria in un’azienda locale.

Ma non ha dimenticato il suo uomo, nemmeno ora che è sottoposto ad un giudizio terribile: «Sono tornata in Italia con il bimbo più piccolo, e l’ho portato con me in carcere a trovare il papà. Era un anno e mezzo che non si vedevano, Giuseppe si è commosso alla vista del suo bambino, lui vuole solo uscire dal carcere e raggiungerci in Marocco».
Proprio quello che voleva fare, prima di essere arrestato.

Franco Tonghini

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