La tomba di Lidia Macchi è vicina all’ingresso del cimitero di Casbeno. Poche decine di metri, sulla destra. Sempre infiorata, accudita amorevolmente, protetta dalle offese del tempo.
Un sorriso sereno guarda dal ritratto a colori: in molti, in moltissimi l’hanno incrociato da quando la ragazza scout di ventitrè anni venne sepolta qui, nel gennaio dell’87.
L’avevano trovata morta qualche giorno prima, in un bosco di Cittiglio non distante dall’ospedale, martoriata da ventinove coltellate.
Un mistero subito fitto, resistente al graffiare delle indagini, alla verifica d’indizi accennati e di possibili prove, all’usura degli anni che passavano inesorabili e senza risultati.
Ora che l’inchiesta prende la strada dell’eventuale colpevolezza di Giuseppe Piccolomo – condannato all’ergastolo per l’omicidio di Carla Molinari, la pensionata di Cocquio Trevisago di cui si trovò il cadavere con le mani mozzate – lo sguardo che si posa sul sepolcro di Lidia è quello d’una pietà rinnovata e aggiuntiva, d’un sentimento di pena e di dolore, e infine d’una speranza forte e nuova verso il conseguimento della verità. La verità così a lungo ricercata. Così tanto oscura. Così difficile da cogliere. La verità che Varese, sconvolta da un assassinio feroce, voleva che fosse subito accertata per allontanare dubbi, sospetti, paure.
E che invece si prendeva ogni comodo, tardava a rispondere alla chiamata popolare, sembrava quasi volersi cinicamente nascondere nonostante la disperazione dei familiari della ragazza, l’angoscia della sua cerchia d’amici, i turbamenti che prendevano gl’interrogati (quanti interrogati) dalla polizia, dai carabinieri, dalla magistratura.
L’idea che solo chi la conosceva bene potesse averla uccisa condusse ad aprire pagine drammatiche durante l’investigazione: Lidia frequentava il mondo cattolico, e il mondo cattolico occupò quasi in esclusiva la scena dell’inchiesta.
Un parroco sottoposto a serrati contraddittorii, altri preti richiesti di fornire chiarimenti, un prevosto che visse il periodo più tribolato del suo ministero pastorale. Ma la verità – rieccoci alla verità – non si risolveva a uscire dal suo ghiaccio riserbo, e lasciava spazio al crescere della sofferenza.
Quella di chi aveva perduto una figlia e reclamava di sapere come e perché; quella di chi, coinvolto direttamente nel caso, avvertiva il cupo gravare su di sé d’una diffidenza ritenuta ingiusta; e infine quella d’una città basìta, non disposta a subire l’incertezza, costretta all’attesa sempre meno spiegabile d’un epilogo che mettesse fine all’inspiegabile. Passarono i mesi e gli anni, si riempirono i verbali e gli archivi, s’alternarono le supposizioni e le perplessità, infine si succedettero le generazioni e perfino le epoche: quasi un trentennio, nel mondo che viaggia alla velocità contemporanea, rappresenta infatti più di un’epoca.
Quando la rassegnazione sembrava aver prevalso assegnando questa tragica storia alla resa giudiziaria, ecco la possibile soluzione indicata dall’ufficio dei pm milanesi e contenuta nel fascicolo che sta sul tavolo d’un sostituto procuratore generale della Repubblica di origini varesine, Laura Bertolè Viale.
Ignoriamo se la svolta si rivelerà quella definitiva. Sappiamo che se lo fosse, verrebbe restituita la pace dell’anima – e la pace sociale – a chi l’ha perduta e merita di ritrovarla. In omaggio alla svelarsi della verità, e all’affermarsi della misericordia.
Max Lodi
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