I sei diplomi al “G. Verdi” di Milano, le cattedre di jazz che portò nei conservatori italiani, i quattromila concerti nel mondo, i 90 dischi e più a sigillo di un linguaggio “liquido” e in continua trasformazione. Il ricordo di Don Pullen (che faceva sanguinare le unghie sul pianoforte), John Coltrane e la Milano del XIII secolo.
La città dove Gaslini nasce nel 1929 e che si porta dentro: «Il Duomo è come la mia musica: se lo osservi dal basso ha una dimensione verticale, verso le guglie; se lo guardi dall’alto ha una pianta orizzontale. Ecco, io mi sento un gotico-milanese».
Poi i tanti giovani che ha scoperto e lanciato, i progetti in corso e le telefonate infinite che ci facevamo l’estate.
Mi raccontava Giorgio Gaslini, morto il 29 luglio all’età di 84 anni all’ospedale di Borgotaro (in provincia di Parma) dopo la caduta che l’aveva sorpreso circa un mese fa in Liguria, di quanto non finisse mai di scrivere.
«Compongo perché lo faccio da tutta una vita: per i concerti non ho più l’età e allora investo sul futuro», incalzava con provocatoria carnalità intellettuale. Questo era il suo “mestiere”. Trii, quartetti, sonate per pianoforte: «Scoprirai la prossima – narrava anni fa – L’ho costruita seguendo le ventun lettere dell’alfabeto…».
Un “re” della musica che sulla copertina del libro “Giorgio Gaslini: l’uomo, l’artista il compositore” (Zecchini Editore) si presentava scalzo e con i calzoni rivoltati.
Un ping-pong tra note, battute e parole che tuonava nelle orecchie, come un arpeggio di piano, nel ricordo della Cina di Mao. Lui, il primo jazzista ad aver tenuto un concerto nella Repubblica Popolare Cinese, ritratto sotto la statua del dittatore.
Ci scherzava, Giorgio: «Con quella manona mi sta dicendo: “Vai Gaslini, vai!”». A più di ottant’anni, progettava il domani: «Serve un libro che raccolga e commenti tutta la mia musica: devo fare chiarezza in chi non ha capito!».
Questa era una fra le sue più grandi preoccupazioni: tra la contemporanea e il jazz stava quella che Gaslini aveva definito “musica totale”.
Preoccupato che tutti potessero distinguere tra la “fusione” e il “sincretismo”: bella pretesa! Ma era una preoccupazione dettata anche da un artista che in sessant’anni di carriera, dal secondo dopoguerra ad oggi, aveva fatto della musica un’espressione di compiutezza morale, culturale e popolare. Nelle piazze, nelle carceri, nei manicomi.
Sul set: il Nastro d’argento per il film “La Notte” di Michelangelo Antonioni lo ricordava sempre volentieri.
In fondo, era anche quella la musica che piaceva a Gaslini: fatta nel momento stesso in cui si consuma.
Ma fatta, in contraddizione, anche per essere lasciata a qualcuno. L’Italia lo ha capito, ma «la critica spesso guarda dal buco della serratura», s’infervorava alzando i toni «e così chi scrive dei miei lavori di musica contemporanea non si interessa a quelli jazz».
Era il concetto di “diversità” ad interessarlo. A come sconfessare – secondo un’applicazione dell’empirismo alla mutevolezza della musica – la rigidità delle gabbie stilistiche.
Del libro ne parlammo più volte: «Ci diamo un anno di tempo, non un giorno di più. Inizia a lavorarci!». Ne parlammo a giugno con la promessa che ci saremmo rivisti presto.
Magari per ripercorrere la Storia della musica in quell’osteria, a pochi passi dalla sua casa milanese, dove tra una purea di patate e un rosso toscano si passavano in rassegna la Scuola di Darmstadt, gli amici Luciano Berio, Claudio Abbado, Luigi Nono. Poi si usciva, passeggiando lentamente come una melodia tentacolare, per fermarsi sul marciapiedi ad ascoltare e discutere di un brano jazz radiotrasmesso da un negozio di moda: «Questo chi ti sembra?» – e non passava momento che non mi mettesse alla prova su generi e scuole.
E da lì si partiva saltando sui rami della musica come scimmie acrobatiche passando da Donald Byrd a Bill Evans, Paul Bley, Igor Stravinsky. Su e giù per capire dove saremmo arrivati ma, soprattutto, come arrivarci. Perché per Gaslini il silenzio – o il mistero (mi definiva «misterioso come un personaggio di Alfred Hitchcock») – davano pienezza alla musica.
Era goloso, Gaslini. Goloso di patatine fritte (lo ricordiamo anche così in occasione del suo invito al Premio Chiara, nel 2009) ma si tratteneva. E allora questa sua golosità la riversava in musica. Spesso e volentieri guardando da quell’osservatorio dell’anima che era la sua villetta a Borgotaro.
Non un luogo dove oziare – perché Gaslini non sapeva cosa fosse il far niente, anche se dolce – ma dove creare scollinando non dai sentieri del parmense ma dalla carta pentagrammata tra le canzoni popolari, il folclore del mondo, il blues, la dodecafonia, lo strutturalismo. Tutto ciò che dal Novecento era nato e che il XXI secolo aveva inaugurato anche grazie a lui.
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