I biancorossi La vera favola varesina

Nel Varese che morderà un campionato duro, affrontando l’avventura più insidiosa degli ultimi anni, leggiamo volentieri cenni di favola. La storia di un spirito identitario che vuole essere più forte delle difficoltà, andare oltre il pronostico avverso, sfidare lo scetticismo che circola.

Cogliamo il gusto d’accettare il guanto della sfida, di elevare il piccolo profilo a grande impresa, di rappresentare qualcosa di superiore a una semplice squadra di calcio. Di essere il simbolo d’una città, o perlomeno di quella sua parte che partecipa con orgoglio della specificità locale.

“Il” Varese che deve onorare un debito milionario, che rischia – se non ne tamponerà in fretta le derive – di pagare gli errori pregressi con ulteriori penalizzazioni, che comincia un torneo ad handicap senz’avere alcuna certezza di non concluderlo allo stesso modo, sarà soprattutto “Varese”. Mai come nella B che s’inizierà alla fine del mese la simbiosi tra squadra e città risulterà indispensabile, per evitare il rischio d’uno sprofondamento non circoscrivibile al glorioso Franco Ossola ma dilatabile al suo intorno: alla realtà civica, politica, se vogliamo anche culturale d’un luogo che ha scelto di credere nell’espressione dello sport più popolare.

Se così non fosse, il sindaco non si sarebbe speso in prima persona nell’operazione di salvataggio della società dal collasso finanziario, mettendoci tutta l’autorevolezza dell’istituzione municipale per trovare le risorse necessarie a sopravvivere. Né avrebbe offerto la forte simbologia di Palazzo Estense a dare sostegno a una campagna abbonamenti assolutamente vitale per le sorti prossime future. Né infine avrebbe espresso fiducia verso il nuovo assetto amministrativo preso dal club, che ha scelto di rimettersi in riga offrendo sacrificio e trasparenza.

L’idea (e qualcosa più dell’idea) è che il Varese sia finalmente uscito dall’isolamento che ne faceva una passione di scarse migliaia di tifosi e sia entrato in un’epoca che ne fa il punto di riferimento d’una collettività cui importa massimamente del significato dei successi sportivi. Il nome di Varese è legato a figure diventate celebri in tante discipline, il calcio appunto, e il basket, il ciclismo, l’ippica, e il canottaggio, la ginnastica, la scherma, la boxe eccetera. Ed è un nome che, nelle ambasce di un’epoca economica d’affanni crescenti, può essere onorato solo dal coraggio dell’individualismo temerario (ma sì, temerario: coraggioso all’estremo) di qualche raro imprenditore e dal sostegno d’un azionariato popolare che non lo è ancora nella forma giuridica e però lascia intendere d’esserlo nella sostanza emozionale.

I pochi assieme ai molti: ecco il realismo di cui stanno raccontando le cronache di questi giorni. E che, diciamo la verità, inorgoglisce più d’una generazione. Perché guardiamo chi è l’allenatore di questo Varese, chi sono i dirigenti-chiave nei diversi settori, quali i giocatori della nouvelle vague incaricati di reinterpretare il corsarismo antico e scopriamo: a) i documenti di un’anagrafe che conosciamo bene; b) i segni del localismo di valori doc cui da sempre assegniamo fondamentale importanza; c) la speranza che non esista una sorte già precostituita e che invece qualunque destino ce lo si possa scegliere, vivere, e conquistare. Basta volerlo.

Max Lodi

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