Va in scena al Santuccio stasera, alle 21, l’attrice varesina Silvia Bottini, classe 1981. Divide il palco del teatrino di via Sacco con Silvio Raffo, portando in scena “Chimera d’amore. Corrispondenza d’amorosi segni tra Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano”, con le scenografie di Laura Piacquadio e costumi di Mercateatro.
Faccio teatro come professionista da dodici anni. Riguardo al cinema, ho avuto un’esperienza più breve e meno intensa. L’agio sul palcoscenico nasce dall’abitudine e dall’istinto, dall’adrenalina mai scemata, che precede il “chi è di scena”.
Ogni sera accade uno spettacolo diverso, a seconda degli imprevisti, della paura di scordare la parte e dei respiri degli astanti, dello stato d’animo proprio e dei colleghi, si crea una sinergia tra pubblico e attori per cui vale la pena di andare a teatro piuttosto che al cinema.
È faticoso, molto, sempre e non solo perché ci sono pochi soldi. Non è soltanto un lavoro precario: è molto poco tutelato a livello di previdenza sociale e leggi. Si devono sfoderare mille risorse, essere autori, venditori, pr, insegnanti…
Mi è sempre stato più congeniale: ho faticato moltissimo per ingrandire voce, gesto e sentimento, come richiede la tecnica teatrale. Ancora di più per accordare il mio sentire di persona, timida e sola, con quello di uno o più colleghi. Sul set devi attendere ore prima di girare, mantenere la concentrazione e poi, da un momento all’altro, agire. Stare davanti alla macchina da presa è come guardarsi allo specchio, celebrando la propria vanità e la solitudine. Richiede una profondità e una precisione che mi piacerebbe frequentare lavorativamente, ma per farlo in Italia dovrei cambiare mestiere e città: prender parte alla mondanità romana, per esempio.
Come direbbe Catullo, odio e amo Varese. È un luogo immutabile, impermeabile, ma vi riconosco le mie radici. Gli odori, i sapori, il modo di parlare e di rapportarsi m’appartengono. Purtroppo non mi capita spesso di lavorare a Varese. Viaggiando tanto, non ho mantenuto molte amicizie.
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