La prima reazione dev’essere quella della pancia, sempre. E la pancia ha parlato chiaro, quando è arrivata la notizia della liberazione di Greta e Vanessa: evviva, era ora. Perché nemmeno la più impenetrabile delle corazze, nemmeno il più solido dei cinismi sarebbe stato capace di zittire quel sentimento dirompente, da padre e da uomo.
Un sentimento fatto di affetti distrutti e abbracci mancati, di camerette vuote e di pranzi con un posto a tavola che cresce,
di telefoni perennemente spenti, di fotografie consumate a furia di essere guardate. Un grande Paese come quello in cui crediamo di vivere non lascia soli i suoi figli. Certo, ascoltare la pancia non significa ignorare tutto il resto: far tacere i dubbi, zittire le polemiche, farsi andar bene ogni cosa. Perché in questa storia le cose sbagliate sono diverse, e pure quelle poco chiare. È sbagliato (e pure pericoloso) questo sempre più diffuso concetto di volontariato al profumo d’avventura. Motivazioni sacrosante e ideali da rispettare (continueremo a provare più simpatia per chi passa le giornate a lavorare per i bimbi siriani rispetto a chi le impiega a caccia del posto più figo dove bere l’aperitivo con gli amici): però non ci si improvvisa volontari, non si gioca a fare gli inviati di guerra.
È sbagliato (e pure irrispettoso) quello che ha detto, a caldo dopo la liberazione, il fratello di Greta: «Il riscatto? Sono affari della Farnesina». No, proprio per niente: il riscatto è affare di tutti gli italiani. Noi pensiamo sia stato giusto pagarlo, crediamo che sia folle scandalizzarsi per aver sborsato qualche milione salvando la vita a due ragazze quando il nostro Paese mantiene fannulloni e parassiti (altro che i 6 milioni). Però, caro Matteo Ramelli, se tu dici “sono affari della Farnesina” manchi di rispetto a tutti: a chi ha rischiato la vita per portare a casa tua sorella, a chi per mesi ha lavorato sotto traccia, a chi ha seguito la vicenda davanti alle tv ponendosi delle domande.
E poi torniamo alla questione del riscatto, o presunto tale: da Roma continuano a negare che sia stato pagato qualcosa, altre fonte autorevoli dicono il contrario. L’abbiamo detto e lo ripetiamo: giusto pagare, perché di video con gli ostaggi sgozzati ne abbiamo visti abbastanza. Però un nostro amico avvocato ci ha messo una pulce nell’orecchio: uno spunto che ci ha fatto riflettere e che proponiamo.
In Italia c’è una legge che prevede il blocco immediato dei beni delle famiglie di persone rapite. Il motivo è presto detto: si vuole impedire che i sequestratori ottengano vantaggi economici dalla loro azione, che il fenomeno dei sequestri di persona diventi talmente redditizio da dilagare. La legge, tuttora in vigore, ha ottenuto dei risultati: ha fatto sì che molti ostaggi venissero liberati dalle forze dell’ordine. E questa legge durissima e spietata, unica nel mondo occidentale, ha sostanzialmente sconfitto il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, tragica piaga che ha sconvolto il nostro Paese nei decenni scorsi. Una legge inflessibile e contestatissima, che in diversi casi ha portato all’epilogo più tragico: in tanti non sono più tornati a casa.
Con i rapitori non si tratta: non deve farlo lo stato e non deve farlo nemmeno la famiglia. L’assunto cambia a seconda che si venga rapiti davanti a casa o sequestrati in paesi notoriamente pericolosi?
Detto questo, Greta e Vanessa, bentornate a casa: vi aspettavamo. Abbracciate forte le vostre famiglie, respirate il profumo del vento e pensate a quanto tutto questo vi è mancato. Non smettete di lottare per un mondo migliore, ma fatelo con la testa: abbiamo tanto bisogno di sognatori, non di martiri.
Francesco Caielli