– Stamattina, in occasione della Giornata della Memoria, all’Università degli Studi dell’Insubria sono intervenuti lo studioso Michele Sarfatti, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, e il milanese Gianfranco Moscati, testimone della Shoah e vittima delle persecuzioni razziali.
Ha aperto l’incontro il professor Fabio Minazzi, ringraziando entrambi per la loro presenza «perchè la conoscenza della storia dà ai ragazzi (ma non solo) l’umanità per affrontare contesti particolari».
Dopo l’intervento del professor Minazzi,
la parola è passata allo studioso Michele Sarfatti, che ha dato un’introduzione storica ai ragazzi riguardo i termini legati a questa giornata: »La parola Shoah è un vocabolo ebraico che significa qualcosa che arriva ma non si è in grado di prevedere e fermare. È il termine usato da chi è stato definito un problema. Al contrario, soluzione finale è il termine usato da chi vede un problema in qualcun altro».
Poi ha spiegato le due fasi della Shoah: «La prima è stata l’eliminazione degli ebrei dal paese, con la persecuzione al loro diritto di residenza. Mentre la seconda è stata l’eliminazione degli ebrei del paese, intaccando il loro diritto di vita» e ha sottolineato che quest’ultima è stata attuata senza leggi.
Come ultima cosa, ha raccontato ai ragazzi: «Il primo evento che portò allo sterminio fu l’apposizione di una J, che significava Jude, sui passaporti di tutti gli ebrei tedeschi per fare in modo che non entrassero in Svizzera, dove tutti volevano rifugiarsi. Il secondo fu la guerra che, in termini tecnici e non etici, è un metodo di risolvere i problemi versando il sangue del nemico».
«Sono contento di essere qui –ha spiegato Gianfranco Moscati, classe 1920, sopravvissuto alle persecuzioni razziali- perché Varese è stata una tappa della mia vita. Sono nato a Milano in tempo di guerra e continui bombardamenti, quindi tutti cercavamo di fuggire nelle campagne. Trovai lavoro a Cantello e io, come tutti gli ebrei in Italia, ero all’oscuro di ciò che succedeva ai nostri simili in Germania».
Quando Moscati, allontanatosi da Milano, pensava di essere al sicuro, venne a sapere dal suo titolare ciò che stava succedendo in Germania sentendosi dire “si te ciapan, te copan!”.
Così decise di spostarsi in Svizzera, con uno dei suoi cinque fratelli, ma arrivato alla dogana per chiedere informazioni su come passarla, dei contadini lo avvisarono che sarebbe stata chiusa la sera stessa.
Moscati si sentì in trappola, quando incontrò due ragazzi in divisa militare che non volevano lasciare l’Italia e la loro famiglia. Si sentirono tutti fortunati perché scambiandosi i vestiti avrebbero raggiunto i loro obiettivi. Grazie a questo scambio riuscirono a oltrepassare la dogana e salvarsi da ciò che, purtroppo, successe alla maggior parte degli ebrei.