Parla il killer della mani mozzate «Sono io a chiedere chiarezza»

Il killer delle mani mozzate si racconta a Quarto Grado e attacca: «Sono io che chiedo di fare chiarezza una volta per sempre», dice Giuseppe Piccolomo – intervistato nel carcere di Opera, in esclusiva per “Quarto Grado”, dall’inviata Videonews Ilaria Cavo – a proposito dell’omicidio della moglie Marisa Maldera, sulla cui morte la procura generale di Milano ha chiesto nuove indagini.

Nel corso della trasmissione – in onda ieri sera, in prima serata, su Retequattro – sono stati approfonditi gli elementi d’accusa contro Piccolomo presentati dalle due procure mentre Cinzia e Tina Piccolomo, figlie del killer che lo hanno sempre accusato di aver barbaramente ucciso la loro madre bruciandola viva in auto dopo aver simulato un incidente stradale, sono tornate a ribadire la loro ipotesi come hanno fatto con il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda.

L’uomo – già condannato in appello all’ergastolo per il delitto di Carla Molinari – prosegue nel raccontare i dettagli della notte del 20 febbraio 2003 quando la prima moglie morì: «È tutto chiaro nella mia mente: io e mia moglie usciamo, come abbiamo fatto tante volte, per andare a Varese. Prima dell’uscita sulla Provinciale che porta a Milano, la polizia ci affianca; mia moglie scende dall’auto e dialoga con i poliziotti. Dopo 40 minuti, ripartiamo. Prima di entrare a Gavirate, però, mi fermo a prendere della benzina perché la macchina di mia moglie era rimasta senza. Marisa mi aveva detto che non sarebbe potuta arrivare nemmeno al ristorante. Così prima di partire, mi ha detto: “Prendi la lattina che fai un po’ di benzina, così posso venire al ristorante domattina”».

«Faccio la salita di Gavirate per andare a casa – prosegue Piccolomo – Arrivati a Gemonio, sento puzza di benzina: guardo e vedo la lattina, posta dietro il sedile di mia moglie, mezza rovesciata – prosegue l’uomo – Mia moglie stava fumando. A quel punto, dissi: “Marisa, fammi il piacere: prendi e butta la sigaretta che c’è della benzina, non senti l’odore?”. Ripartiamo, dopo 250 metri, con la coda dell’occhio vedo mia moglie che riaccende la sigaretta».

«La mia colpa è quella di essermi quasi scagliato addosso a Marisa per levarle la sigaretta di bocca. Allungandomi verso di lei, ho portato lo sterzo verso il basso e siamo caduti giù. Ho cercato di tenere la macchina, malgrado il terreno ghiacciato, ma ci siamo girati. Come ho aperto la porta dell’auto per uscire ho sentito un boato. La sigaretta le era caduta dalle mani. Aprendo la portiera deve aver fatto combustione e la macchina ha fatto un’esplosione unica».

«Io non avevo segni di bruciature. Perché? Il caso ha voluto così. Se fossi rimasto dentro anch’io, sarebbero state felici le mie figlie? – s’interroga Piccolomo – Le fiamme e la benzina che mi sono arrivate addosso mi hanno bruciato tutto lo spolverino. Cosa dovevo fare per salvarla?».

Alle accuse mossegli dalle figlie che affermano di aver sentito dire dal padre che “la moglie era morta perché grassa e di averla vista squagliarsi attraverso il vetro”, l’uomo replica: «Questa è un’infamia. Loro mi hanno pregato tante volte di raccontare gli ultimi momenti. Ho spiegato che purtroppo mi ha chiamato due volte e poi ha reclinato il capo sul sedile. Ho visto che quasi si scioglieva. Questo ho detto loro. Ho capito che era morta perché ha piegato il viso e bruciava. Cosa dovevo fare?».

«L’assicurazione sulla vita di mia moglie era intestata a tutti e tre i figli, agli eredi. Io non volevo rifarmi una vita perché avevo un’altra relazione. In passato, anche quando abbiamo avuto un altro momento in cui non andavamo d’accordo, dissi a mia moglie che me ne sarei andato. Perché avrei dovuto ammazzarla? L’ho conosciuta che aveva nove anni».

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