Giornata “svizzera”, ieri a Locarno, dove il Concorso internazionale è stato monopolizzato dalla produzione elvetica.
Due film, di registi – Andrea Štaka e Fernand Melgar – che in riva al Verbano avevano già colto allori, la prima, nel 2006, il Pardo d’oro con la sua opera d’esordio, “Das Fräulein”, l’altro, vincitore di Cineasti del presente nel 2008 con il documentario “La forteresse”.
Si può cominciare da quel film, che sarebbe stato il primo di una trilogia che giunge a compimento con “L’abri” passando attraverso “Vol spécial”.
Con “La forteresse” Melgar porta la macchina da presa in una struttura svizzera per richiedenti l’asilo, “Vol spécial” indaga la sorte di coloro la cui domanda è stata respinta, “L’abri” entra nel rifugio di protezione civile che a Losanna ogni notte, nella brutta stagione, diventa il possibile riparo di senza tetto.
Rom mendichi e africani che sia erano illusi, immigrati cui non riesce di trovare un lavoro, anche un italiano, qualche vecchio clochard; ma ogni notte c’è posto, e un pasto caldo, per un numero strettamente contato di persone e tutte le sere l’estemporanea selezione è stremante per gli stessi addetti e non senza turbolenze tra la folla.
Un rituale la cui drammaticità risuona nei colpi battuti dagli esclusi contro la porta. Con la motivazione e la sensibilità di un cineasta politicamente impegnato, Fernand Melgar si mescola sia ai senza tetto sia al personale del rifugio.
Sono tutte storie vere, insomma, quelle che documenta – a Locarno non è la prima volta che in concorso c’è un documentario, ma forse non c’era mai stato un documentarista, l’italiano Gianfranco Rosi, a capo della giuria – con la potenza della realtà.
Tacita, la denuncia dell’esclusione è implicita contro gli sfondi da cartolina della sua città: Melgar trova autentici personaggi in un marasma sul limitare del girone infernale di un’umanità pressoché sotterranea
“L’abri”, il rifugio, è fatto anche di chi vi lavora: un po’ di vocazione è necessaria, Melgar s’identifica probabilmente nel personaggio vitale, un ritratto in piedi, svizzero, ma di seconda generazione, figlio di padre spagnolo.
Erano arrivati dalla Spagna anche i genitori del regista, così come da Dubrovnik giunsero quelli di Andrea Štaka che ha diviso la propria esistenza tra Zurigo e l’ex Jugoslavia. Una miscela che marchia il suo cinema, di cui sono sempre protagonisti personaggi femminili di quelle origini.
Come in “Cure-The life of another”, che s’ambienta nel 1993, appena conclusa la guerra in Croazia, e segna il ritorno della regista a Dubrovnik per il tramite del personaggio di un’adolescente la cui incerta identità si esaspera fino al delirio. Arrivata col padre dalla Svizzera, sembra doversi sostituire all’amica e coetanea non rientrata dal bosco dove si erano appartate insieme in un film che arriva fin sulla soglia della realtà.
Appuntamento in Piazza grande, questa sera, con Giancarlo Giannini, destinatario dell’Excellence award del Festival, prima della proiezione di “The hundred-Foot journey”, regia di Lasse Hallström.
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