«Oggi è una bella giornata. Oggi sono qui a fare il mio lavoro nell’ufficio del giudice di pace e non ho paura».
Parla una delle vittime di , il coordinatore dell’ufficio del giudice di pace di Varese, arrestato ieri mattina dagli uomini della Digos della questura di Varese in seno all’ampia indagine coordinata dalla procura di Brescia. Soma ad oggi è accusato di molestie sessuali e abuso d’ufficio. Parla una delle vittime, che un anno e mezzo fa ha detto basta.
«Dieci anni di molestie – spiega – E di palpeggiamenti, rinchiusa in quell’ufficio. Di frasi volgari, offensive. Di essere toccata. In un caso mi ha lasciato persino un livido».
Stando a quanto accertato dagli inquirenti l’avvocatessa in questione non è l’unica. Dopo di lei ne sono arrivate altre. Almeno sei. Ma alcune vittime non hanno ancora trovato la forza di farsi avanti: forse lo faranno adesso. Ieri, tra i corridoi del tribunale, era tutto un rincorrersi di voci.
Di quella volta che l’amica aveva ha confessato: «Mi ha palpato t…. e c….., insultandomi». E le “attività” del giudice Soma, per gli inquirenti, non si limitavano all’avvocatessa.
L’interesse del capo dei giudici di pace si estendeva ad altri soggetti femminili che gravitavano nell’orbita del tribunale.
In un caso addirittura Soma accusò una delle vittime di essere lesbica (lo avrebbe detto con toni discriminatori) e, dopo averla toccata, avrebbe spiegato di averlo fatto per farle capire la differenza. Lo squarcio che emerge dell’indagine è mortificante: avvocatesse che a causa dei continui assalti da parte dell’arrestato erano praticamente impossibilitate a fare il loro lavoro. «Qualche volta – aggiunge la vittima – quasi non riuscivo a entrare in quell’aula. Non ce la facevo».
Perché attendere tanto prima di denunciare? «Paura di non essere credute – spiega – Paura di avere difficoltà sul lavoro».
C’è stato anche qualcuno tra i colleghi che ha minimizzato, ridicolizzato la situazione. In fondo una palpata che danno arreca? «Io poi mi sono fatta forza- spiega la vittima – ci ho pensato e ripensato. E poi mi sono detta: tu rappresenti persone che subiscono queste cose. Ti batti per loro. Tu rappresenti vittime di abusi. E non hai il coraggio di farti avanti per te stessa? Ho pensato – continua la vittima – che non era giusto. Che mi sarei dovuta vergognare per non averlo fatto prima. E mi sono fatta avanti».
Scoprendo che, come lei, ce n’erano tante altre. Che la paura poteva essere condivisa. Che insomma non era la sola.
«Siamo state tutte ascoltate – racconta – Sono arrivate le conferme. Quel che accadeva non erano i gesti di un “macho piacione”. Non era il complimento colorito che magari disturba ma non è violento. Essere palpeggiate, essere insidiate, toccate, subire frasi volgari, vuol dire essere molestate. Sino ad aver timore di fare il proprio lavoro. Perché il molestatore era il giudice, era la figura che avrebbe dovuto essere sopra le parti. Pareva impossibile».