Alzi la mano chi ancora pensa che le Province non servano. Purtroppo, qualcuno c’è. Perciò mi chiedo: cosa deve succedere affinché si comprenda che le riforme migliori sono quelle fatte col bisturi e non con la clava? Capisco che Matteo Renzi (ex presidente di provincia, per altro) ne abbia fatto un cavallo di battaglia. Ma visto che si è già rimangiato altre affermazioni (ad esempio: “Non voglio il posto di Letta!”), perché non dovrebbe ricredersi anche su questo? Per di più,
non dimentichiamolo, gli stessi strateghi che qualche mese fa tuonavano contro le province, hanno poi ridimensionato le proprie ambizioni. Oggi si accontentano di lasciarle così come sono, eliminando solo la componente democratica, cioè le urne. In sostanza: se la “riforma” passasse così come recentemente ipotizzata, le province resterebbero ciò che sono sempre state, solo che ai suoi vertici si insedierebbe un’unica cabina regia, guidata da sedici soggetti, uno dei quali, il presidente, verrebbe indicato dalla maggioranza dei sindaci. Tradotto: in Italia il mandato popolare è diventato optional. Ecco, allora, che la questione province svela il suo volto vacuo e un po’ deforme, frutto di mille compromessi al ribasso.
Si voleva imboccare la bestia dell’antipolitica, ma senza pestare piedi troppo potenti. E così, ad andarci di mezzo, anziché i veri centri di spesa, è l’anello debole della catena. Ma siccome debolezza e inconsistenza non sono sinonimi, e i soloni ministeriali si sono presto resi conto che le province sono importanti eccome, siamo giunti al consueto pastrocchietto, destinato a peggiorare i servizi, aumentare i costi e allontanare ancor di più chi governa da chi vota (e subisce). Davvero un capolavoro, non c’è che dire.
Eppure, per migliorare il sistema, basterebbe poco. Un paio di mosse, non di più. Primo, tornare al numero di province di 25 anni fa, costringendo le più piccole ad accorparsi e obbligando le regioni più ridotte a fare lo stesso. Secondo, applicare gli sbandierati (e mai applicati) costi standard, imponendo agli enti spreconi di adeguare il proprio ménage a quello degli enti più virtuosi (come Varese, che vanta un costo pro-capite pari alla metà della media nazionale). Con queste due azioni la spesa pubblica verrebbe abbattuta (non di molto, ma sarebbe già un inizio) e i servizi resterebbero in mano a chi ha più titolo per gestirli. Possibilmente, aggiungo, restituendo la parola agli elettori, affinché chi guida la Provincia possa godere nuovamente di rappresentatività e responsabilità. Ma torniamo alla domanda iniziale: a cosa servono le province? A chiederlo, spesso, sono residenti di borghi e paesini: realtà che, senza la Provincia, sarebbero ancora senza ponti, svincoli, argini, scuole. Alle comunità, infatti, serve un ente di mezzo che faccia da raccordo tra l’esigenza del piccolo e l’attenzione del grande. Dopodiché, lo sappiamo, ovunque esistono sacche di spreco e margini di miglioramento. Ma in un Paese come il nostro, disseminato di enti inutili, consorzi fantasiosi e società inverosimili, prendersela con le province è un esercizio miope. Un po’ come concentrare lo sguardo sulla cristalleria, ignorando l’elefante che passeggia tra calici e lampadari. Infine, un consiglio spassionato al centrodestra varesino. Sostenere la retrocessione della Provincia a ente di secondo livello significa regalare lo scettro al centrosinistra. Fate due calcoli e vedrete.
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