Quella di a Varese è solo una piccola pausa italiana, in una vita da ricercatrice che ha già deciso di vivere il proprio futuro lontano da casa. E che, guidata dalla sua carriera, ha anche sfiorato l’orrore della guerra.
«Mi sono laureata in Chimica Farmaceutica a Milano, e ho deciso subito di partire: un anno a Leiden, in Olanda, per un’esperienza post laurea tramite un programma europeo, poi ho deciso di intraprendere un dottorato in chimica organica».
Paola finisce a Zurigo, quindi segue il suo professore, chiamato a Berlino per la direzione di un importante istituto.
Conclusa dopo qualche anno anche quest’esperienza Paola decide di intraprendere un post doc, la fase successiva del percorso accademico, dedicandosi alle biotecnologie, in particolare all’ingegneria delle proteine. E l’università che più l’attira è quella di Weizmann Institute , con il professor .
Arriva in Israele nel novembre 2011, e da subito si sente a proprio agio. «In Israele, come in molti altri paesi al mondo, fare ricerca è molto meglio che in Italia. Non è solo una questione di stipendio più alto, ma di condizioni in cui è possibile fare ricerca: mezzi migliori, più fondi per portare avanti i progetti, più libertà d’azione. Insomma, l’ambiente ideale».
I primi tre anni a Rehovot, poco distante da Tel Aviv,
passano tranquilli: Paola porta avanti il proprio lavoro accanto a colleghi che vengono da tutto il mondo, i risultati del suo impegno arrivano, la ricerca procede bene.
Ma il 30 giugno vengono ritrovati i corpi dei tre studenti di una scuola rabbinica rapiti il 18 giugno.
Pochi giorni dopo viene rapito e ucciso un ragazzo palestinese, quindi Israele chiude il distretto di Hebron e il valico di Harez in Cisgiordania, arrestando duecento palestinesi presunti affiliati ad Hamas. In pochi giorni, la tensione fa esplodere una nuova fase della guerra tra Israele e Palestina.
«Per noi la guerra è scoppiata quasi all’improvviso. Anche i colleghi israeliani, pur essendo quasi abituati, sono stati colti di sorpresa». Presto diventa impossibile lavorare: Tel Aviv è una delle città israeliane più vicine alla Striscia di Gaza, da cui iniziano a partire i razzi in risposta agli attacchi dell’esercito israeliano.
«I razzi non sono caduti in città, grazie all’imponente sistema di difesa israeliano. Ma le sirene continuavano a suonare, le corse verso i rifugi sono diventate continue. Per me, italiana, sembrava di essere stata catapultata nei racconti dei miei nonni sulla Seconda Guerra Mondiale».
I colleghi israeliani, racconta, «sembravano più abituati. Saranno i tre anni di servizio militare che tutti, uomini e donne, devono affrontare dopo le scuole superiori, o sarà che non è la prima volta che la loro città subisce attacchi di questo genere, fatto sta che reagivano meglio di noi stranieri alla situazione drammatica».
La decisione di Paola è sofferta ma inevitabile: ad agosto torna in Italia. «All’Insubria sono stata accolta nel laboratorio di , membro del Senato Accademico e del Presidio di Qualità dell’Università dell’Insubria, che da anni si occupa di argomenti simili a quelli della mia ricerca. Da qui continuo a collaborare con il professor Tawfik in Israele».
Nel suo futuro, però, l’Italia non c’è: «Per ora sto cercando in Germania».
Restare in Italia, a casa, è il sogno di tutti i “cervelli in fuga”, ammette Paola, ma «per riuscirci dovrei trovare un’offerta competitiva. Non solo in termini di stipendio, ma soprattutto di posizione, di libertà d’azione. E di disponibilità di fondi e strumentazioni».