Anita Ekberg – nome d’arte: all’anagrafe di Malmö, dove era nata nel 1931, risulta Anita Kerstin – è uscita di scena, ieri, in una clinica laziale, concludendo, non lontano dai luoghi dove aveva scelto di vivere (“Ormai mi sento parte del paesaggio, un manifesto pieno di sole e di pioggia – la dichiarazione è dei primi anni sessanta – chi mi sposta più? Mi sento una parte viva di Roma”), un’esistenza – professionale – il cui calendario ha continuato a segnare un solo anno,
il 1960 della “Dolce vita”.
Consegnata alla storia del cinema da una sequenza – Sylvie, una star, nell’acqua della fontana di Trevi – del film di Federico Fellini, eccola musa del regista, icona felliniana quante mai ve ne furono. Vampeggiante fin dagli esordi, però, nella natia Svezia, dove conquista il titolo nazionale di Miss nel 1950: il produttore Howard Hughes la vuole in America, sul grande schermo esordisce al fianco di Gianni e Pinotto (“Viaggio sul pianeta Venere”, 1953) e di Jerry Lewis e Dean Martin (“Artisti e modelle”, 1953; “Hollywood o morte!”, 1956, dove interpreta se stessa: le ricapiterà, come vedremo).
In tempo di Hollywood sul Tevere, è sul set di “Guerra e pace” (1956) di King Vidor nella capitale italiana che, per sua espressa dichiarazione, sognava fin da bambina e che a sua volta la scopre: è la protagonista, Zenobia, regina di Palmira, ribelle all’impero romano, di “Nel segno di Roma” (1959). Nel particolare genere “storico”, una pellicola dignitosamente spettacolare; Anita Ekberg riscuote l’attenzione di quelli che di lì a poco sarebbero diventati universalmente “paparazzi”, un piccolo incidente, la lieve ferita a un piede che immerge, entrandoci, nell’acqua della prima fontana – il caso vuole sia quella di Trevi – che incontra, diventa una fotografia stampata sui rotocalchi popolari.
Per questo l’attrice sosteneva di avere inventato lei, prima di Fellini, la famosa scena della “Dolce vita”, cui peraltro era riluttante a partecipare, diffidente nei confronti di un regista che distillava giorno per giorno il copione del film. Si sarebbe presto ricreduta: “Non mi muoveva come un pezzo degli scacchi, come facevano a Hollywood”, e Fellini le avrebbe offerto nel 1962, con l’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio”, satira grottesca di certe campagne moralizzatrici, il modo di mostrare tutte le sue risorse.
Gigantessa, giocoforza, nella smisurata immagine pubblicitaria – “Bevete più latte, il latte fa bene…” – sulla quale Peppino De Filippo la vedrà progressivamente animarsi, è l’incarnazione della semidea le cui proporzioni in fotografia avevano abbacinato il regista, “una creatura mitologica del Walhalla, dal corpo fastoso e scultoreo, la carnagione tersa e bianca che ‘emetteva luce anche al buio’”, come spiega Gianfranco Angelucci in un freschissimo “Fellini proibito” attribuendo al maestro riminese la dichiarazione che anche a distanza di tanti anni dalla “Dolce vita”, “il film, il suo titolo, la sua immagine, anche per me sono inseparabili da Anita”.
Oltre che nei “Clows” (1970), interprete di se stessa, Fellini mostra Anita Ekberg in “Intervista” (1986): con amore e venerazione, in una magica coesistenza di passato e presente, di prosperosa pinguedine, le spalle enormi sotto l’asciugamano, l’attrice contempla emozionata la propria giovinezza, insieme a Marcello Mastroianni, entrambi maltrattati dagli anni trascorsi, alla proiezione della celebre sequenza della fontana di Trevi.
Si capisce attorno a chi orbiti la vicenda dell’attrice, anche se Anita Ekberg (“Sono stata io a rendere famoso Fellini” rivendicava con lo spirito e il carattere di cui non difettava) protestava di avere lavorato in una sessantina di film. In una carriera però lentamente declinante. Compare infatti in film di genere all’occasione avvalendosi ancora dell’aura di sex symbol, ma anche in western spaghetti e thriller, poi si rigenera da caratterista in produzioni modeste, rimediando pure un passaggio in tv. Dei suoi due non felici matrimoni, l’aveva condotta dalle parti di Menaggio il primo, con l’attore inglese Anthony Steel, impegnato sul set in Alto Lario all’inizio dei fatidici anni sessanta. Ne è rimasta una testimonianza scritta: Anita Ekberg comparve ai giovani menaggini con indosso “una tuta blu molto attillata che metteva in risalto le sue belle forme”. Nella vetrina del fotografo locale, la sua immagine ebbe il posto d’onore, “quello fin’allora riservato ad Adenauer”, ritratta “con una espressione dolce e sensuale e in mano teneva un grandissimo capello di paglia che le copriva quasi metà del corpo”.