«La tecnologia? Di sicuro aiuta, ma per portare a termine un’indagine come si deve ci vuole una cosa sola, la stessa dal 1814: lo “sbirro”».
Lo dicono con il sorriso sulle labbra e con accento siciliano, i carabinieri di Varese, ma anche con orgoglio.
Perché la realtà quotidiana degli investigatori non è quella delle serie tv americane alla Csi, e nonostante i progressi tecnologici nell’individuare il Dna, o l’abbondanza di strumenti a disposizione per seguire le tracce dei sospettati, dai gps ai cellulari, quello che fa la differenza è ancora il fattore umano.
Ovvero la capacità di intuire i collegamenti e dare un ordine alla mole di dati raccolti sul campo. Ma anche quella di seguire una traccia costi quel che costi, fino all’arresto dei colpevoli.
Una raccolta paziente, certosina, fatta di attenzione ai particolari. Come è stato per i due casi più clamorosi chiusi durante l’ultimo anno dai carabinieri della provincia di Varese: l’arresto di Alex Maggio, assassino reo confesso della gioielliera di Saronno Maria Angela Granomelli, e di Domenico Cutrì, ergastolano evaso a Gallarate lo scorso febbraio.
Per Cutrì, in particolare, lo spiegamento di forze è stato impressionante: più di cento investigatori e almeno altri trecento carabinieri impegnati sul territorio in pedinamenti e varie attività di controllo.
Turni anche di 48 ore filate, con riposi di non più di quattro ore, quando l’orario di lavoro dovrebbe essere quello di un normale impiegato statale, sei ore giornaliere.
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