Se il seme della palla ovale è stato piantato in Valceresio ed è ormai vicino alle quaranta primavere il merito è di Angelo Bonalumi: presidente onorario della società varesina, ammalato di rugby e altamente contagioso. Da quella mattina a metà degli anni settanta sul campetto delle scuole di Induno Olona gli occhi, il cuore e la passione di Bonalumi nel raccontare lo sport della sua vita sono rimasti gli stessi.
«A Varese e in Valceresio arrivai da Milano per motivi di lavoro. Avrei dovuto restarci qualche giorno per una consulenza è invece affondai le radici. Una sera mi ritrovai con alcuni colleghi e amici nella sede del Tennis Club di Induno. A loro chiesi un parere e subito un consiglio sul come seminare il rugby anche in provincia di Varese. Mi risposero in coro che il primo interlocutore doveva essere la scuola. Il provveditore di allora era il compianto prof.
Domenico Zagonia con il quale ci trovammo da subito a parlare la stessa lingua. Dai primi filmati al cinema dell’oratorio di Giubiano ai primi raduni sul campo con gli aspiranti rugbisti più curiosi che altro, incapaci di capire come poter giocare con una palla che rimbalzava senza una logica e che per poter avanzare verso la porta avversaria andava passata al compagno rigorosamente all’indietro. Spogliatoi gli ex bagni pubblici. Ristoro l’acqua fresca del rubinetto di casa Bonalumi fatta arrivare direttamente sul campo grazie ad una canna di gomma di oltre quaranta metri».
Un anno dopo, nel 1976, nasceva il Rugby Concordia Varese che per parecchi anni contò sull’appoggio di aziende come Malerba e Lindt. «Grazie alle conoscenze dei miei anni da giocatore prima, da dirigente e arbitro poi, riuscii a farmi confezionare una muta di maglie di ottima qualità che ancora oggi sono nel cassetto di tanti protagonisti di quei primi passi della nostra storia».
Racconti il debutto, storico, sul campo dei Diavoli Rossoneri Milano: «Quella mattina non ebbi bisogno della sveglia perché l’emozione di portare i miei ragazzi a giocare nel glorioso Campo Giuriati non mi fece chiudere occhio. In quell’ora di treno capii che l’unico teso ero io mentre per i ragazzi si trattava finalmente di mettere in pratica qualcosa di quel poco che avevano imparato. Il riscaldamento nello spogliatoio e vedere l’uscita di corsa sul campo mi gonfiò gli occhi d lacrime. Di fronte ad un avversario in quel momento improponibile quei ragazzi lasciarono sul campo ogni goccia di energia finendo la partita sommersi di mete senza segnarne una, ma con l’applauso e l’apprezzamento dei presenti impressionati da tanta volontà e determinazione».
Nel tempo i passivi di quegli inizi furono abbondantemente restituiti con gli interessi tanto che oggi alcune delle nostre formazioni giovanili giocano nei gironi veneti perché con le squadre lombarde non c’è partita.
«Vero – conferma Bonalumi – Questo è il frutto del grande lavoro svolto dai nostri tecnici del settore giovanile, iniziato tanto tempo fa grazie alla collaborazione con un guru del rugby mondiale e maestro di sport come Jean-Pierre Villepreux, oggi impreziosito dal lavoro in collaborazione con la coppia di tecnici federali Mammo e Romagnoli ».
Negli ultimi anni , per ragioni diverse, nello sport varesino si è parlato spesso a sproposito di varesinità e attaccamento alla maglia. Due caratteristiche nel DNA del Rugby Varese. Forse l’emblema di questo attaccamento è l’uomo a cui è intitolato il campo di Giubiano: Aldo Levi.
«Aldo e Lucio Sacchetti, sono due nostri ragazzi che ci hanno lasciato troppo presto. La leucemia costrinse Aldo a lasciare il rugby giocato ma pur devastato nel fisico lui restò in società come segretario e molto altro fino a quando un’ ulteriore mazzata ce l’ha portato via per sempre”». Scorrendo i quadri della vostra società, a partire dal presidente Stefano “Birmano” Malerba la lista dei contagiati dal Rugby Varese è interminabile. Nella sua lista personale manca qualcuno? «Io vorrei ogni singola persona che ha condiviso con noi anche solo una stagione. Tra quelli che ci hanno lasciati penso al prof. Zagonia e allo storico presidente provinciale del CONI Enrico Ravasi e con loro, affettivamente vorrei ancora al mio fianco mia moglie Gisella che preparava i panini per i primi ‘terzi tempi’ della storia della nostra società. L’unico periodo che ho trascorso fuori dal Rugby Varese è stato quello della sua malattia per starle vicino fino alla fine. Ma tornando al possibile, insieme a Malerba, Pierantozzi, Benco, Bianchi, Brughera e tutti gli altri il mio unico cruccio è non vedere Giuseppe Pellegrini. Il ‘Peppo’ rappresenta quanto di meglio può essere un giocatore, un tecnico o un dirigente. Purtroppo la sua intransigenza non si adatta alla triste realtà dei giorni nostri».
Un esempio di triste realtà? «Basta girare per campetti e palestre. In campo e in tribuna i tristi esempi sono infiniti. Restando in casa nostra penso ai ragazzi di quelle prime partite che prima di giocare toglievano i sassi dal campo e montavano i pali. Subivano sonore sconfitte, giocavano e si allenavano nel fango, sul ghiaccio e nella neve eppure non mancavano mai. Ora, da due anni oltre al nostro campo di Giubiano condividiamo con una società di calcio anche il campo comunale del Vivirolo e i ragazzi che giocano su quel campo che trovano segnato e attrezzato si lamentano per le condizioni del terreno. Quello spirito che ci permise di superare tra mille difficoltà i traslochi da Induno a San Fermo dove spianammo noi il campo utilizzando una ruspa di un amico, all’antistadio e infine a Giubiano, non c’è più». Veniamo al presente. La prima squadra è in corsa per la promozione in serie B. «È un po’ che manchiamo dalla B dove siamo stati protagonisti per tanti anni . Se non fanno gli scemi alla tradizionale festa del rugby Varese del primo fine settimana di giugno avremo un motivo in più di festeggiare».