Correre in Africa, tra salite e disciplina. Melaku e Flor, sogni in un paio di scarpe

Il racconto di una straordinaria full immersion in Etiopia, dove la gente ha il passo svelto per fare tutto. Allenamenti agli ordini del guru, attrezzature donate ai ragazzi, una gara nella capitale, mille emozioni

Il viaggio di ritorno dall’Africa è sempre e comunque più lungo. La ragione è la testa che tenta di mettere a posto tutto quello che si vive in Africa, quella vera, in un villaggio del Burundi oggi massacrato da un pazzo criminale, che non fa notizia come in un Paese in forte espansione economica come l’Etiopia, dove – nonostante la storia dica il contrario – giovani e adulti rivendicano di vivere nell’unico Paese africano mai colonizzato.
Occidentale nella sua autostrada a pagamento e nei suoi imbarazzanti alberghi di lusso, l’Etiopia è africana nella miseria di gran parte della popolazione. Per la mancanza di acqua potabile e per mille altre contraddizioni contro le quali si sbatte il muso ogni volta che si prende e ci si va.

Questa volta lo spunto è stato l’impegno del varesino Marco Rampi dell’associazione “Africa&Sport”, formata e sostenuta da amici sparsi per l’Italia, presente, oltre che in Etiopia, anche in Tanzania e in Kenya. Nelle valigie dell’associazione tante scarpe, nuove e usate, recuperate grazie ad un passa parola tra i runners. Ad aspettarle come il pane c’erano i bambini e i ragazzi di Bekoji, un villaggio a 250 km. da Addis Abeba, sdraiato su un altopiano a 2.800

metri d’altitudine. Lì sono nati e cresciuti tanti campioni del mezzofondo e della maratona, che hanno iniziato a correre chi a piedi nudi, chi in ciabatte, chi con improbabili scarpe di gomma che cuociono la pelle solo a tenerle in mano.
«No, non corrono per fame. Corrono perché è un movimento che sviluppano naturalmente crescendo. Per gioco, per andare e tornare da scuola, per andare a prendere l’acqua, per tenere a bada asini e capre, sognando di diventare campioni». La risposta alla domanda sul perché i bambini e le bambine di Bekoji corrono è del totem del mezzofondo etiope Sintayehu Eshetu, per tutti “coach Sintayehu”. Un insegnante e maestro di sport che ha accolto e cresciuto migliaia di runners in erba. Termine che ben si adatta a chi corre a Bekoji sotto la sua guida attenta, scrupolosa e per certi versi spietata. Niente tartan, niente asfalto, solo percorsi disegnati virtualmente nei prati e nei boschi di eucalipto, con pendenze che spaccano gambe e polmoni, su è giù tra i 2.800 e i 3.000 metri. Divisi per età, ma soprattutto per frequenze, che devono tener conto di chi mangia solo una volta al giorno (i più) e chi due. Il maestro è uno, gli allievi sono tanti. Ogni gruppo ha una sorta di capitano scelto dal maestro, rispettato come se fosse il maestro. È la disciplina che svela senza pietà gli anarchici, spesso semplicemente “artisti”.
Tra questi ultimi c’è Melaku, ribattezzato Messi per la maglietta del Barcellona di due misure più grande indossata sopra un maglione dolcevita la cui data di ultimo lavaggio è sconosciuta. Melaku ha undici anni e corre come il vento pur avendo ai piedi due pezzi di gomma. Suo inseparabile amico, uguale per età, fisico esilino, settimane d’uso senza lavaggio della felpa rossa e le gomme ai piedi, è Flor. Anche Flor corre forte, ma più di Melaku è un leader naturale, con il culto del rispetto delle consegne che, non a caso, il coach gli assegna puntualmente, insieme ai gradi di capitano del team misto under 12.

Indicazioni sul percorso, sempre diverso, tempi per esercizi, ripetute e lo stop che per Flor sono legge. Per capirlo mi basta accodarmi al suo gruppo. Flor sopporta l’intrusione solo perché ho il permesso del coach ma le regole sono regole e quindi qualcuno dei suo rimbrotti per mantenere l’ordine delle file sono anche per me che dopo una ventina di minuti sono già col fiato corto. L’ora di “lavoro” termina con esercizi condivisi e sincronizzati: poi, sempre su due file, tornano dal coach, che ci aspetta in un prato a mezzo chilometro. Dopo pochi passi la discesa mi incoraggia a riprendere una corsetta lenta per accorciare i tempi: Flor mi insegue e mi ferma. «Stop! – mi dice in inglese e con la faccia seria – l’allenamento è finito. Dal coach si torna camminando». Obbedisco e chiedo scusa.
Il mattino seguente, al termine dell’allenamento sulla leggendaria pista del diversamente stadio di Bekoji, arriva il momento della distribuzione delle scarpe raccolte da “Africa&Sport”. I ragazzi sono 300, per numeri disponibili le scarpe sono molto meno. Coach Sintayehu snocciola i nomi dei meritevoli o dei fortunati. Una lista che divide le espressioni dei visi in entusiasti e delusi.
Tra questi ultimi anche chi le scarpe le riceve, ma di quattro o cinque numeri più grandi. Melaku è a terra, in tutti i sensi: per lui niente scarpe. Mi avvicino e mi illudo di portarlo fuori dallo sguardo di altri che, come lui, hanno ricevuto niente. Tolgo dallo zaino una canotta alla quale sono molto affezionato, perché è griffata Vharese e ricorda il figlio di una mamma di Giubiano che ho visto nascere. Gliela metto. La linea della bocca di Melaku si ribalta. Il bambino che dovrebbe conoscere sola la sua lingua, l’amarico, mi dice «thank you». Gli dico di stare tranquillo e continuare ad impegnarsi, perché la prossima volta ci saranno scarpe anche per lui. Non so se mi sono fatto capire, non so se gli basta, anche perché né lui né io sappiamo quando sarà la prossima volta. So solo, e me lo faccio bastare, che alle mie spalle sono spuntati i suoi compagni per festeggiarlo nella sua nuova canotta rossa, che almeno per qualche giorno resterà dello stesso colore.
Flor e Melaku sono solo due degli incontri e dei momenti vissuti nei 10 giorni trascorsi tra Addis Abeba e Bekoji, dove non sono pochi i varesini al fianco dei più poveri.
Tra i tanti il medico dentista Dino Azzalin delle associazioni Apa e Medici con l’Africa Cuamm, e suor Giuseppina Riotti, con la sua scuola sostenuta dai volontari del Memorial Fabio Aletti di Biumo. Celebrando la messa, “Aba Renato”, così chiamano ad Addis Abeba il religioso ultraottantenne piemontese dell’Istituto dei Padri della Consolata, al momento della predica si siede sempre davanti all’altare per ascoltare e condividere le riflessioni con i bambini.

«Un paio d’anni fa – interviene il missionario, solo dopo aver ascoltato i bambini – consigliai ad un ragazzo poco più grande di voi, bravissimo a disegnare, di partecipare ad un concorso artistico. Tanto era bravo che vinse. Il premio prevedeva per lui l’iscrizione ad una scuola importante dove poter sviluppare il suo talento. Qualche mese più tardi seppi che quel ragazzo aveva abbandonato la scuola. Provai un grande dispiacere perché così facendo aveva sprecato un dono che Dio gli aveva dato, e anche perché non aveva pensato di dirmelo. Bene, stamattina, a due anni di distanza, ho ricevuto una sua telefonata. “Padre”, mi ha detto, “solo adesso trovo il coraggio di dirle che ho lasciato la scuola per entrare in seminario e diventare come lei, che dona la vita ai poveri del mio Paese”. Con un mio consiglio pensavo di aver perso un figlio ed invece ho ritrovato un artista autore di un disegno molto più grande».
Quando lasci l’Africa, quella vera, ti sembra sempre di perdere qualcosa. Invece, ogni volta porti a casa quanto basta per far sì che sia inevitabile tornarci. Con i miei fantastici compagni di viaggio ci siamo allenati sui gradoni della mitica piazza Meskel di Addis Abeba, punto di partenza della Great Ethiopian Run, che abbiamo corso insieme ad altre 45mila persone. Una festa popolare all’insegna del motto caro al professor Enrico Arcelli, “correre è bello”.
Un carnevale sportivo seguito a quello del sabato, protagonisti oltre 4.500 bambini con molti disabili. Più fortunati di Flor e Melaku, rimasti a correre a Bekoji, sognando un paio di scarpe.