Il cuore di Varese non smetta di battere

La vicenda dei tavolini dell’Oca Ubriaca, come di consueto, è di quelle destinate a dividere l’opinione pubblica a metà, più o meno equamente divisa tra i supporter della movida e quelli dell’ordinato quieto vivere. E’ l’eterno copione di questo Paese dove, dagli Orazi e Curiazi in poi, il match tra due fazioni è lo sport più praticato in assoluto. E porta spesso a ragionare più con le emozioni, i preconcetti e le appartenenze che con i dati di fatto. Proprio per questo vale la pena di fermarsi un momento e fare qualche considerazione a bocce ferme.

La prima: ve la ricordate la Varese degli anni Sessanta e Settanta? Il coprifuoco che scendeva insieme alle saracinesche dei negozi, le vie del centro vuote e spettrali, i bar aperti da contare sulla punta delle dita di una mano, ristoranti che se arrivavi dopo il telegiornale della sera ti guardavano di traverso e ti facevano sapere con voce fintamente contrita che gli spiaceva molto “ma la cucina a quest’ora è già chiusa”?.

Sembrano passate ere geologiche dal vociare confuso che oggi, soprattutto nei mesi estivi, fa da colonna sonora alle piazze e alle vie della movida. Una voglia di stare insieme che qualcuno potrebbe anche definire scomposta, perfino maleducata, ma che rappresenta pur sempre un antidoto all’alienazione da computer, Facebook, Twitter e cuffiette in testa che spesso rimproveriamo alle nuove generazioni.

Voglia di ritrovarsi, di conoscersi, di fare amicizia e, perché no di fare casino. Lo abbiamo fatto ai nostri tempi, chi più chi meno. Non c’è nonno o padre che non rimproveri ai posteri le stesse cose che suo nonno e suo padre rimproveravano a lui. E’ il percorso di crescita che ognuno di noi compie, con gli inevitabili errori e le migliaia di azioni che poi, con i capelli bianchi, si vorrebbero cancellare. Ma che sono stati, nella loro sgrammaticatura, mattoni fondanti della maturità stessa. Pretendere che qualcuno venga grande senza sbagliare non è solo follia, è imbecillità.

Rimpiangere la Varese d’antan è come sperare di veder sferragliare di nuovo i tram diretti a Robarello. Sono cambiati i tempi, è cambiata la città, è cambiato il mondo. Lamentarsi oggi, perché i nostri figli/nipoti occupano strade e piazze con volume di voce troppo alto, tavolini tracimanti, ombrelloni nascondi-insegne è una battaglia di retroguardia. Che non significa permettere tutto, abbassare la guardia, lasciare carta bianca. Vuol dire confrontarsi. Anche con le leggi e i regolamenti che limitano gli spazi all’aperto a disposizione di bar e ristoranti. Sono anch’essi figli di una città vecchia e sarà il caso di porvi mano velocemente.

Considerazione numero due: quelli che ora si accusano di occupare la città con i loro schiamazzi, le bottiglie abbandonate in strada, gli episodi poco commendevoli che spesso rimbalzano sulle pagina di cronaca, non sono personaggi che arrivano da un altro pianeta, passeggeri scesi da astronavi di passaggio, barbari di altre tribù che tentano di invaderci. Sono proprio i nostri figli/nipoti, la Varese del domani. E se i loro costumi e il loro modo di stare al mondo non ci piace, la colpa è di chi li ha educati o, meglio, si è dimenticato di farlo. Quindi, in poche parole, nostra.

Ma diamo per un momento ragione a chi vedrebbe bene una Varese che alle note del silenzio, magari suonato da un trombettiere sulla cima della torre civica, si rintana ordinatamente nelle case per uscirne all’alba del giorno dopo altrettanto ordinatamente con la schiscetta sottobraccio per andare a lavorare. Ve lo immaginate un centro città dopo il tramonto ancor più svuotato di oggi? Strade, vetrine, portici e muri in balia di chi a dormire non ci vuole andare e che si sentirebbe in qualche modo padrone di una città addormentata.

Si rendono conto commercianti, inquilini e farmacisti che gli schiamazzi per strada sono sì fastidiosi, ma sono anche il miglior antifurto e antivandalo che in questo momento possa esistere?

Marco Dal Fior

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