Rosita Jelmini Missoni, neo-Cavaliere del Lavoro, ha ricevuto lunedì al Golf Club di Luvinate il premio dei Rotary Club Varese Verbano e Sesto Calende-Angera nel corso del “Galà della Professionalità”. Insieme a lei hanno ricevuto il prestigioso riconoscimento Alberto Roggia, chirurgo urologo e primario emerito al Sant’Antonio Abate di Gallarate, il liutaio Domenico Fantin, il direttore di VareseNews Marco Giovannelli e il fotografo Giorgio Lotti. Un modo, per i rotariani, di sfidare l’epoca del pressappochismo: «Nel Rotary si entra per la propria professione, è un momento importante per valorizzare le professioni – ricorda Anna Zottola – vengono premiate personalità che hanno valori comuni e che sanno colmare spazi importanti, anche d’interesse per i giovani».
È un messaggio di fiducia, quello che ci lancia Rosita Missoni, vedova del grande Ottavio e colonna dell’azienda di famiglia di Sumirago, a margine della sua premiazione al Galà della Professionalità dei Rotary.
Non avevamo nessuna intenzione di fare alta moda, ma solo di trovare una maniera per sbarcare il lunario. Io ero cresciuta in mezzo ai fili colorati, nell’azienda di famiglia a Golasecca, con i figurini di moda che erano la mia passione. Da ragazza ero molto cagionevole di salute e, nelle tante giornate passate a letto con la bronchite, mi portavo le riviste di moda che arrivavano in azienda, dalle quali ritagliavo i figurini. È stata quella la mia scuola di moda.
Io ero cresciuta nell’azienda di famiglia, dove avevo lavorato per tre anni a presentare i campionari, mentre Ottavio aveva avviato un’attività a Trieste con il suo commissario tecnico della Nazionale di atletica. Facevano tute per lo sport, ma diverse da tutte le altre, tanto che avevano rifornito le nazionali di atletica, basket e pallavolo per le Olimpiadi con delle divise già all’avanguardia, una blusa in costa inglese e i pantaloni già con la zip. La moda ci ha dato modo di lavorare assieme, perché Tai aveva mille talenti, e se non ci fossi stata io probabilmente non si sarebbe occupato di moda. Abbiamo iniziato in un seminterrato di 100 metri quadri, vicino all’autostrada a Gallarate.
Era il 1958, lo sbarco alla Rinascente, un primo ordine da 500 vestiti. Ci misero in vetrina 17 vestiti, pubblicizzati con mezza pagina sul Corriere: venivano venduti sulla bancarella, senza dover entrare in camerino. In questo eravamo già innovativi. Ma ricordo ancora quando arrivammo per la prima volta a vedere la vetrina in una piazza Duomo deserta, in una serata buia, umida e di nebbia: l’unico passante davanti alla vetrina, vedendo il motivo dei manichini che erano ragazze che giocavano a moscacieca, che esclama “por tusan, par fortuna che g’han bendà i oeucc”.
Eravamo da Cardin a Parigi, con la prospettiva di fare qualcosa insieme. Ma ci dicono: “Fate la vostra collezione, noi scegliamo dieci capi, li marchiamo Cardin e vi diamo il 10%”. Io ero quasi in lacrime, perché avevamo fatto dei sacrifici per organizzare quell’incontro, ma con la prospettiva di collaborare. Io non volevo lavorare per i francesi. Così chiamo Emmanuelle Khanh, che era una delle giovani leve tra gli stilisti francesi: ci invita a bere un tè e in due ore abbiamo deciso di fare una collezione insieme. Il caso vuole che conosceva il proprietario del negozio di Parigi che in quegli anni “faceva” la moda. Noi ci abbiamo messo tutto il nostro entusiasmo e la voglia di fare cose diverse, ma senza programmi, tutto è successo per caso. Come per la collezione “Put together” che ci consacra.
Mi viene in mente l’idea di mettere assieme tutte le collezioni di quindici anni di lavoro. Io e Ottavio eravamo a New York, passeggiando per librerie sulla Quinta Strada, che erano aperte la sera, perché allora potevamo permetterci di acquistare solo libri e dischi. In una vetrina siamo colpiti da un libro sull’Afghanistan ed è lì che arriva l’ispirazione: “Tai”, gli dico, “metto assieme tutto nella prossima collezione”. È quella che ci fa considerare dal mondo della moda e che fa scrivere al New York Times che eravamo la miglior maglieria del mondo.
Tai era un vincente. E aveva un senso straordinario per il colore. Un suo linguaggio fatto di fili mescolati, che non generavano mai colori uguali. Un talento fantastico, che mi faceva tessuti meravigliosi.
Ha contato tantissimo, anche per i miei figli, che si divertivano molto a giocare dappertutto con i pennarelli e con le spolettino delle macchine da ricamo, così come io mi ero appassionata alla moda ritagliando i figurini dalle riviste.
È vero, è una cultura che si sta perdendo, ma vedo dei focolai che lasciano ben sperare in un ritorno e in una conservazione di questa cultura del lavoro. Io ad esempio l’ho riscontrato tenendo delle lezioni all’università e vedendo che i ragazzi rispondono, dimostrano interesse. Forse hanno solo bisogno di sentirsi dire queste cose. Del resto anche al Royal College di Londra parlavo di Sonia Delaunay e non sapevano chi fosse.
Erano gli stilisti che hanno vestito Lady Diana al suo matrimonio. Proponevano una sfilata tutta di abiti bianchi. E chiesi: ma il colore ve lo siete dimenticato? Menomale che c’era Paul Smith che ha raccolto il messaggio….
In Italia confido nell’effetto contagio. Viviamo in un Paese in cui abbiamo talmente tanti musei, opere d’arte, bellezze artistiche e naturali. Non possiamo che essere creativi, basta essere ispirati da tutto ciò che ci circonda. È per questo che io e Ottavio abbiamo deciso di costruire la nostra fabbrica nel posto che abbiamo scelto per vivere, anche se forse mio marito avrebbe preferito il mare. Ma quando in una giornata di nebbia e di nuvole vedo anche solo in una linea all’orizzonte il Monte Rosa che si staglia penso alla fortuna e al privilegio che abbiamo.