Willy torna a casa: «Varese, sei cambiata?»

Osuji, di nuovo in biancorosso, apre il cuore ai suoi ricordi più belli. «Non riesco a spiegare cos’è per me questo posto, non ho le parole»

«Non ve lo posso spiegare, non ci riesco. Ma è così». Willy Osuji è tornato al Varese dopo quattro anni; come scritto sopra, parole sue, il filo che lo ha tenuto aggrappato a Masnago a dintorni non è cosa che si spieghi su due piedi. Sempre che ci si riesca.

«Questo club e questa città per me sono un’emozione fortissima – prova ad argomentare il centrocampista nigeriano –. Il mio Varese era come una casa, come un posto in cui i ragazzi crescono. E io l’ho fatto: avevo manco vent’anni, arrivavo dalla Primavera del Milan, abbiamo vinto un campionato di Prima Divisione, mi sono diplomato, abbiamo sfiorato la A. Quello che in genere si vive in dieci anni io l’ho vissuto in due stagioni. Mi sono innamorato di questa città

e il Varese è la squadra del mio cuore».
Ora, però, è tutto diverso. O forse no? «Voglio credere – risponde Osuji – che il Varese sia rimasto così come lo avevo lasciato. Non è questione di sentirsi in dovere di riportare le lancette a quattro anni fa: è questione di volere che questo Varese sia come quello là. Non parlo delle ambizioni di classifica: parlo della sensazione di essere tutti utili, di non sentirsi fenomeni. Anzi. Ho imparato a conoscere la serie B: con grinta, voglia ed entusiasmo vai dove vuoi. Se mancano questi ingredienti, non vai da nessuna parte. Il Varese è questa cosa qua: non eravamo fenomeni, eravamo uomini che correvano tanto, che sorridevano, che sapevano che quelli erano gli unici ingredienti per provare ad essere qualcuno. È questo l’atteggiamento che mi aspetto dal Varese, a partire da me». Osuji, dopo l’arrivederci di quattro anni fa, ha viaggiato lungo la tratta Padova-Modena andata e ritorno. Che giocatore deve aspettarsi la platea biancorossa? «Ho imparato tante cose – risponde lui –, sotto tutti gli aspetti. Tecnicamente mi sento più forte; ma anche sul piano più generale della maturità: non prendo più tutti quei gialli inutili, dovuti all’irruenza».

Il nostro ricordo dell’Osuji calciatore sono anche le sfuriate di mister Sannino in quelle interminabili sedute ad Albizzate. «Con me – ricorda ridendo il centrocampista neobiancorosso – calcava la mano. Mi beccavo certi cazziatoni. Ma era un aiuto enorme, per un ragazzino un po’ impertinente quale ero io. Un rapporto del genere ti fa essere meno permaloso, ti insegna a gestire le emozioni, ti insegna anche a saper rispondere alle provocazioni. Il suo “funcool” era scherzoso, ma era qualcosa che ti entrava dentro come solo sanno fare le persone che ti conoscono per davvero».
Che cosa è rimasto di quel ragazzino? «Non sono ancora arrivato da nessuna parte – spiega Osuji –, dentro di me c’è lo stesso sogno e voglio continuare a sognare. Ora il sogno più vicino è esser in questa squadra, lottare coi miei compagni per conquistare la salvezza. Bettinelli, che c’era anche nel mio Varese, ci ha detto una cosa sacrosanta: noi non dobbiamo vincere; noi vogliamo vincere. C’è una bella differenza. Come quando Sannino diceva “è tutto scritto”: può sembrare che volesse dire che il nostro futuro era già deciso. Sì, certo. Noi, invece, sapevamo che – qualsiasi cosa fosse il nostro destino – quella frase voleva dire che dovevamo andare a prendercelo».