Quando la resistenza è un caffè a Parigi

L’editoriale di Laura Campiglio dopo le stragi del 13 novembre che hanno sconvolto la capitale francese e l’intero occidente

Parigi è una sigaretta nel dehor di un bar, è andare a zonzo un venerdì di novembre, è scegliere spulciando il giornale se andare al cinema, a teatro, a un concerto oppure allo stadio. Parigi, nell’immaginario del mondo e nelle abitudini di chi ci abita, è tutto quello che i terroristi hanno preso di mira, colpito e annientato in questo 13 Novembre che segna l’attentato più micidiale mai visto in Francia. Se nella redazione di Charlie Hebdo era la libertà d’espressione che è stata colpita a morte )ora il bersaglio è altrettanto chiaro: il nostro stile di vita, la nostra quotidianità, questa normalità che si scopre così preziosa quando viene annegata nel sangue.

Un attacco codardo e vile, che mostra tragicamente il valore semantico della parola terrorismo: seminare il terrore perché metta radici in ognuno, perché si sappia che chiunque, ovunque e in qualsiasi momento può essere ucciso indiscriminatamente. Perché, come ha dichiarato Alain Chouet, già dirigente dei Servizi Segreti, al giornale Le Point «non si potrà mai impedire a otto tizi determinati, addestrati all’estero e rispediti qui oppure già presenti sul posto, di passare all’azione». In altre parole, contro un kamikaze pronto a farsi esplodere uccidendo più gente possibile c’è poco da fare.

Una consapevolezza pesante, che Israele ben conosce e che l’Italia ha conosciuto in una certa misura durante gli anni di piombo, quando – per citare De André – «chi non terrorizza si ammala di terrore». E una consapevolezza che la Francia ha conosciuto nel 2015, annus horribilis di un Paese che aveva fatto dell’integrazione la propria bandiera. Sì, perché quali che siano le politiche sull’immigrazione nel mondo, nessun Paese – nessuno – ha fatto quel che la Francia ha fatto nel corso della propria storia: rendere cittadini francesi a tutti gli effetti gli abitanti delle ex colonie, che quindi hanno da generazioni la nazionalità francese e con essa il passaporto. Era il grande sogno dell’universalismo francese: riunire sotto il tricolore genti di origini, culture e religioni diverse. E da questo sogno Parigi si è svegliata in una notte da incubo.

Perché, come già nel caso dei fratelli Kouachi nella sede di Charlie Hebdo, è più che probabile che gli attentatori del venerdì 13 siano anch’essi perfettamente francesi: nati, cresciuti e scolarizzati in Francia e poi diventati jihadisti non per ragioni religiose – perché se i jihadisti sono musulmani, i musulmani che abitano a Parigi da più di sessant’anni non sono jihadisti – ma per un odio feroce e totale nei riguardi dell’Occidente. Odio che monta nelle periferie ghetto e che si alimenta delle iniquità sociali ed economiche: se di guerra bisogna parlare, siamo più vicini alla guerra civile che a quella di religione.

Ecco perché le bagarre sull’immigrazione che terranno banco in Italia sono, riguardo i fatti di Parigi, fuori tema: se gli attentatori, come i primi risultati dell’inchiesta suggeriscono, sono francesi o belgi, non c’è bisogno di puntare il dito contro “gli stranieri”. E la chiusura delle frontiere che alcuni in Italia invocano, in Francia è stata decisa per evitare che i terroristi escano, non che entrino. In attesa del seguito dell’inchiesta e delle decisioni dell’Eliseo sulla politica interna ed estera, i parigini cercano intanto di continuare la loro vita: a musei, cinema e negozi chiusi, ieri la gente era comunque in strada, volti lividi e cuori pesanti. Perché a Parigi, ieri, anche solo bere un caffé in un bistrot era un atto di resistenza civile.