C’è più di una somiglianza tra le polemiche sulle nomine in RAI e quelle, tutte varesine, relative alle partecipate. A qualunque livello la si guardi, la politica nostrana vive di rituali talmente collaudati da risultare logori. Una recita a soggetto ciclica, in cui cambiano gli attori (non tutti, per altro), mentre il canovaccio resta sempre lo stesso. Anche qui, come a Roma, c’è chi grida allo scandalo per la lottizzazione, l’occupazione, la spartizione. A protestare, ovviamente,
sono i nemici del nuovo corso. Coloro che, a seguito delle elezioni, hanno perso i posti, precedentemente lottizzati, occupati e spartiti secondo le stesse logiche che oggi attaccano. Qualcuno, poi, si spinge oltre, sollevando dubbi circa le competenze dei nuovi vertici. Dubbi che, negli anni passati e a parti rovesciate, non lo avevano nemmeno sfiorato. Varese come Roma, quindi. Anche per il ruolo dei dissidenti, che non perdono mai l’occasione di incalzare la maggioranza di cui fanno parte. C’è solo da chiedersi se anche qui, come là, una parte del Pd arriverà a mettere in discussione il referendum, contando sulla clemenza di una dirigenza varesina che finora ha dimostrato ammirevole fair-play. L’unica sostanziale differenza sta nella franchezza dei propositi. I ribelli capitolini ammettono candidamente di tenere sul gozzo Renzi. Quelli varesini, invece, ribadiscono costantemente la propria lealtà al sindaco Galimberti, malgrado iniziative degne del più accanito oppositore. Basterà la quiete di agosto per calmare le acque? Difficile. Più probabile che ridisegni la strategia offensiva, perché ritrovi slancio e contenuti, liberandosi dalla sindrome della sconfitta che accomuna pezzi importanti di entrambi i fronti.