Sono le 19 ed Enzo Rosa, amico e dirigente del Varese, chiama in redazione per sapere se può lasciare il nostro numero a Massimiliano Gibellini «perché ci terrebbe a dirvi una cosa». Massimiliano è il papà che ha appena salutato per sempre sua figlia Erika (anche se un addio a una figlia non è mai per sempre), è lo steward che ai cancelli dello stadio tante volte ha chiuso un occhio permettendoci di entrare in campo con la carrozzina di Alfredo Luini senza chiedere permessi all’arbitro (l’umanità non si ferma davanti a nessun cancello), è una di quelle persone di cui ti senti amico senza bisogno di esserlo veramente perché i gesti semplici e i volti sinceri restano appiccicati più di quella volta ogni due domeniche in cui ti c’imbatti alla partita.
«Volevo ringraziarvi – dice Massimiliano al telefono – per ciò avete fatto per Erika. In mezzo a questa cosa troppo grande che è capitata non ci siamo mai sentiti in pochi, o soli, e questo non era scontato. Vi ringrazio per questa sensazione di essere parte di una famiglia in cui se succede qualcosa a una persona, è come se accadesse a tutte». Massimiliano non deve ringraziarci perché un giornale – la città e tutte le persone che fanno battere il cuore di un giornale – sono una squadra: si gioca insieme e quando qualcuno non può più giocare, lo facciamo noi per lui.
Siamo noi che ringraziamo Max perché riesce a pensare comunque agli altri in un momento in cui tutti gli altri si preoccupano per lui. Ma a chi starà pensando, adesso, sua figlia? «A tutte le persone del quarto e quinto piano dell’ospedale Del Ponte. Sabato scorso una dottoressa che non era di turno è arrivata apposta al lavoro ed è stata seduta davanti a Erika finché lei non se ne è andata. Io penso che mia figlia vorrebbe che tornassi in quei due piani dell’ospedale per donare le offerte che abbiamo raccolto in chiesa, perché possano essere utilizzate per aiutare altre persone come lei. Il suo dono è questo». Papà Massimiliano lo consegnerà insieme a noi e «a Enzo, a Piddu, agli amici steward, ai ragazzi della curva, al Varese». Perché questa città in realtà non è né chiusa né egoista: basta saperla amare e diventa una famiglia. La famiglia di Erika.