«Non sono cambiato, sono sempre lo stesso pirla che avete conosciuto tanti anni fa. E farò il Pozzecco fino in fondo». Varese ha finalmente in panchina il suo Special One, anche se la frase con la quale si è presentato ribalta il concetto che rese mitico quell’esordio in nerazzurro di Josè Mourinho: «Io non sono un pirla», disse all’epoca Mou.
Gianmarco Pozzecco invece non rinnega nulla del suo essere personaggio: e su questa forza dirompente punta forte per cambiare questa pallacanestro malata, «come ho già fatto in campo, da play, iniziando a fare 20 punti a partita quando gli altri ne segnavano al massimo 7, prendendomi inizialmente del cretino».
Proverà a cambiare il mondo il Poz, partendo da Varese, la sua prima casa, nella quale si è ripresentato con una conferenza stampa fiume, centrando subito il primo obiettivo: «Non ho pianto. E non era facile, visto che l’età mi ha reso patetico da questo punto di vista».
Considero Capo d’Orlando un angolo di paradiso. Lì ho vissuto un’avventura meravigliosa: sono venuto via solo perché mi è capitata l’unica opportunità al mondo che potesse convincermi all’addio. Provo gratitudine infinita per tutti, a cominciare dal presidente Enzo Sindoni: mi hanno dato un’occasione che forse nessun altro mi avrebbe concesso.
Lo scudetto della Stella è stato qualcosa di epico per tutti. L’obiettivo è ovviamente riuscire a rivivere tutto quello che ho già vissuto, allargando se possibile il pubblico di riferimento della pallacanestro rispetto a quello che era nel 1999.
Le parole spese su di me e che ho letto in tante interviste in queste settimane mi hanno davvero toccato. In particolare quelle del Menego: essere accolto qui, in quel modo, da un personaggio come lui, era il mio sogno e la mia speranza. Un ruolo determinante lo avrà anche la mia fidanzata, una ragazza spagnola alla quale sono legato da due anni: lei riuscirà sicuramente a tenermi calmo. Ma avrò anche bisogno dell’appoggio di una persona per me importante come Toto Bulgheroni.
Cecco, ovviamente. Dire che siamo diversi è perfino banale, ma questo mi rende ancora più orgoglioso di quanto sta accadendo. Perché se una persona come lui, che in questi anni da presidente ha fatto così bene, ha deciso di affidarsi a un ex giocatore come me, sapendo quanto siamo bistrattati noi ex giocatori, ecco: io dico che questo per me è un onore.
Sono qui per lavorare e fin da subito mi chiuderò in ufficio, con Vescovi e Giofrè, per formare il nuovo gruppo, affinché non ci sia mai la possibilità di dire «io questo giocatore non lo volevo». Deve esserci condivisione totale su ogni scelta: io voglio arrivare ad amare i miei giocatori, voglio arrivare a considerarli miei figli. Solo se parteciperò direttamente alla selezione questo sarà possibile. A Capo d’Orlando dicevano che io sono stato l’allenatore che ha lavorato di più da quanto esiste la società. Sarà lo stesso anche qui.
Di più: lo trovo un valore assoluto. Vorrei prendere qualche giovane italiano che la gente possa amare quanto ha amato me.
Quando arrivi a fine stagione, e ti rendi conto che i tuoi giocatori ti vogliono bene, è davvero gratificante. Molti di coloro che ho allenato a Capo d’Orlando mi seguirebbero volentieri a Varese, e io sarei felice di riallenarli. Tutto quello che faccio, lo faccio per vedere i miei giocatori vivere certe emozioni. È il mio modo di vedere la pallacanestro: se non potessi agire così smetterei di fare questo lavoro.
Fa parte di questo mondo e di questo modo, può essere perfettamente associata alla professionalità. Vi faccio un esempio eclatante: il Menego.
In Dodo Rusconi ho trovato un’innata capacità di insegnare la pallacanestro e di migliorare il gioco. Da Repesa ho imparato… a bestemmiare in croato. Ma forse i due a cui più assomiglio sono Charlie (Recalcati, ndr) e il Meo (Sacchetti, ndr). E sono orgoglioso di essere accostato a loro.
Ha detto che le piacerebbe cambiare questo mondo.
Da play l’ho già fatto. Ora so di avere addosso una grande responsabilità, a livello di entusiasmo, e spero di poter essere utile in generale alla pallacanestro, partendo anche da queste cose.
A parte che c’è chi sta molto peggio di noi, il partire svantaggiati non mi preoccupa. Anzi, se le cose fossero state ancora più difficili sarebbe diventato uno stimolo ulteriore. Ero un nanetto, ma in campo sono riuscito lo stesso a diventare grande. Quando Cecco mi ha chiamato, non gli ho mica chiesto quanti soldi aveva a disposizione. Perché io devo a Varese molto più di quanto Varese debba a me.
Ci vorrebbero più tutele per chi costruisce e meno per il ricco di turno. Anche se di ricchi in circolazione ce ne sono sempre meno: quindi, forse, è proprio Giorgio Armani la persona che meriterebbe tutele maggiori.
Non posso avere la presunzione di dire che conosco la categoria dalla panchina. Ho bisogno di aggiornarmi in fretta e lo farò da subito. E poi prenderò in considerazione l’idea di avere un giocatore che per me possa essere ciò che è stato Soragna all’Upea, una sorta di prolungamento in campo. Non è fondamentale, ma serve.
Sì, per Gianfranco Castiglioni e suo figlio Davide. Li conosco bene e credo nella loro onestà intellettuale. Spero possano dimostrare la loro estraneità ai fatti di cui sono accusati.n
© riproduzione riservata