Dicono che sia facile dimenticare. Dicono che i varesini dimenticano, a volte troppo facilmente. E invece no. Ci sono momenti, ci sono realtà e soprattutto ci sono persone che lasciano un segno. Indimenticabile. Imperituro. Incancellabile. Ed è per questo che oggi, 11 febbraio, il giornale che avete tra le mani è di quelli da conservare. Il perché lo avete visto in prima pagina: quella testata dal pattern inconfondibile, quelle righe dai colori inequivocabili.
È il nostro modo di ricordare ma soprattutto di dire grazie. A chi? A Ottavio Missoni. Sarebbero stati novantacinque, oggi. Novantacinque anni. E lui, Ottavio per tutti Tai, avrebbe festeggiato come sempre: circondato dalla sua famiglia.
Dove per famiglia si intende non solo quella fatta di legami di sangue, ma anche quella allargata, formata dai suoi dipendenti. Dalle generazioni intere di suoi dipendenti , devoti fino alla fine e ancora oggi al nome Missoni, a un marchio che ha portato Varese sotto i riflettori del mondo intero. Tutti lo ricorderanno oggi a Sumirago, dove Missoni ha vissuto fino all’ultimo giorno, dove è nato e cresciuto il suo impero, senza mai muoversi da quelle radici così
salde. Lui, che forse proprio per il fatto di essere stato un esule si è poi ancorato per la vita alla terra che gli ha donato prima l’amore e poi il successo planetario. Nasceva oggi 95 anni fa, Ottavio, in quel di Ragusa (ora Dubrovnik). Conobbe da giovanissimo la guerra, combattè la battaglia di El Alamein e fu fatto prigioniero in Egitto. Tornò in Italia nel 1946 e riprese la sua prima grande passione, l’atletica leggera, e già nel 1939 vinse l’oro nei 400 metri piani alle Universiadi mentre nel 1948 arrivò in finale alle Olimpiadi di Londra. Ci mise lo zampino il destino, che lo fece inciampare a pochi metri dal traguardo: si piazzò sesto, ma lì “il figlio di Apollo” (come lo definì Gianni Brera) inciampò piuttosto nel suo destino. Perché proprio in quel di Londra scoccò la più brillante scintilla della sua vita: l’incontro con Rosita Jelmini da Golasecca, destinata a diventare nel 1953 sua moglie e per sempre la sua fedelissima, imprescindibile compagna di vita.
Il destino. Anzi, il caso. Tai amava lo ripeteva spesso: «La mia vita è stata tutta per caso». Fu un caso che la famiglia di Rosita possedesse una fabbrica di scialli e tessuti ricamati. Fu un caso che le macchine a loro disposizione all’epoca potevano fare solo righe. Non fu di certo un caso tutto quello che ne scaturì: la fantasia, le potenzialità del colore portate al potere. Tre figli devotissimi. Un’azienda gestita come una famiglia, e anche per questo destinata a diventare un impero solido e duraturo. «Venne fondata dai giovani, da gente che ha imparato il mestiere qui, insieme a noi» ricordava con orgoglio Missoni. Quei giovani diventati uomini, donne, famiglie a loro volta. E che hanno poi fatto entrare in fabbrica i loro figli, creando un continuum unico. Artigiani nel lavoro e nella vita, i Missoni. Artigiani del tessile ma anche dei sentimenti, con quella villa dove ogni domenica Rosita e Tai aprivano le porte ai familiari e agli amici più cari per meravigliosi e infiniti pranzi. Artigiani della discrezione: mai uno scandalo e tanta, tanta compostezza, soprattutto nei momenti più difficili, come la scomparsa dell’amato figlio Vittorio e della compagna Maurizia. Artigiani dell’umiltà, con i matrimoni (come quello della nipote Margherita) festeggiati sempre nelle tenute di famiglia, chiamando il bel mondo a rapporto nel Varesotto perché “casa” era ed è qui, e “casa” per i Missoni è tutto. Come Tai e Rosita hanno insegnato ai loro figli prima e ai loro nipoti poi.
A loro va oggi il nostro grazie. Innanzitutto per averci permesso di celebrare il mito di Tai come a noi è sembrato più congeniale fare: la scelta definitiva della nostra testata odierna è stata fatta proprio insieme alla famiglia Missoni. E poi, grazie per essere rimasti sempre loro stessi, in un mondo volubile e talvolta artefatto come quello della moda. Ma soprattutto grazie a Tai e Rosita per aver scelto Sumirago decine e decine di anni fa. E per aver tessuto un filo indistruttibile con il nostro territorio. Che non dovrà, e non potrà, mai dimenticare tutto questo.