Ha vinto il doping e l’ha fatto nel modo più subdolo: umiliando, sfottendo, spernacchiando. E, almeno per quanto ci riguarda, ora potete pure spegnere quel braciere: simbolo della bellezza e dei valori più puri dello sport, tradito da una sentenza vergognosa.
Alex Schwazer è stato ucciso, come atleta e come uomo: otto anni di squalifica sono la pietra tombale su una carriera che si era meritata una seconda possibilità, su un ragazzo che si era annullato per rimettersi in gioco. Una sentenza già scritta? Forse. Una sentenza che stride con tutto quello in cui abbiamo sempre creduto? Sicuro. Sì, siamo convinti. Siamo convinti della pulizia assoluta e totale di Alex perché in questi anni, quelli della squalifica,
lo abbiamo seguito e abbiamo ascoltato la sua storia. Una storia fatta di rinunce e sacrifici, di notti passate in un alberghetto di Roma e allenamenti silenziosi e massacranti, una storia nata da una sfida portata avanti insieme al suo allenatore Sandro Donati e patrocinata dall’associazione Libera di don Ciotti (sciacquatevi la bocca, quando parlate di loro). La sfida di dimostrare a tutto il mondo che un’atletica diversa è possibile: che si può vincere anche senza aiuti chimici (leciti o no). Una sfida persa, una porta chiusa in faccia a chi ha osato mettersi contro ai poteri forti e a mettere in discussione regole non scritte.
Caro Alex, sei un povero illuso. Pensavi che affidarti senza mezzi termini a Donati, moderno Don Chisciotte nella lotta contro il doping, bastasse a garantire davanti al mondo la tua pulizia e la tua voglia di riprovarci. Pensavi che per vincere una medaglia olimpica fosse sufficiente farsi il culo ogni santo giorno (avete presente cosa significa marciare per 50 chilometri?) e sottoporsi a controlli continui e costanti (in media, uno ogni 6-7 giorni: nessuno al mondo come lui). Pensavi di aver pagato davvero fino in fondo per quell’errore.
E invece, no. Un atleta che pretende di vincere soltanto con la sua forza e il suo talento non poteva piacere a un mondo in cui doping e antidoping si rincorrono fino a sfiorarsi pericolosamente, fino a toccarsi, fino a mescolarsi. Le cronache, sono note a tutti. La strana positività di quella provetta, un controllo mirato e particolare, la negatività di tutti i test che l’hanno preceduto e l’hanno seguito, la squalifica e la penosa presa in giro del viaggio a Rio per un’udienza farsa. Il tutto accompagnato dal silenzio dei vertici dell’atletica di casa nostra. Il tutto accompagnato dal voltafaccia di una fetta di stampa che fino a qualche anno fa ha campato sulle imprese di Schwazer e che l’ha abbandonato appena Schwazer non serviva più (aveva fatto lo stesso, qualche anno fa, con un certo Marco Pantani: mandandolo a morire). Chi avrebbe dovuto dire qualcosa è stato zitto, chi avrebbe dovuto tacere invece ha parlato. Sì, ce l’abbiamo con quei compagni di Nazionale che fin da subito non hanno perso tempo nel puntare il dito contro Alex e il suo ritorno (serve sempre un capro espiatorio per sentirsi migliori). E sì, ce l’abbiamo con quel Gianmarco Tamberi che, a Rio anche se infortunato, con un tempismo poco felice si è scagliato contro Schwazer (salvo poi smentire tutto, una volta accortosi della frittata, e dare la colpa ai giornalisti: chapeau). Caro Gianmarco: ti auguriamo di fare incetta di medaglie olimpiche in futuro, e ti auguriamo anche di crescere un po’ come uomo. Per il momento, non hai ancora fatto né l’una né l’altra cosa. n