– La Val Grande è stata immaginata così da un poeta della montagna, da un amante del selvaggio. Aspra, dura, inospitale: ma d’una bellezza unica e senz’appello. Bisogna andarci, per capirlo: camminare nelle sue gole, addentrarsi tra i boschi, aggrapparsi alle sue rocce per inseguire una cima.
La Val Grande era la casa del Gianfry: eremita filosofo, sedici anni fa decise di lasciare tutto quanto – la civiltà, il rumore, la gente, il suo lavoro di autista di scuolabus a Sesto –
per andarsene. Di spegnere il mondo per rifugiarsi nella solitudine di quella terra aspra e inospitale. Ieri mattina due ragazzi l’hanno visto morire, davanti a quello che era diventato il suo rifugio: il bivacco dell’alpe Vald. Aveva 59 anni e se n’è andato così, apparentemente per un malore subito dopo aver bevuto una tazza di caffè, in mezzo alle sue montagne. Difficile, per ora, capire cosa sia successo. C’è chi dà la colpa a qualche cosa di velenoso mangiato per sbaglio (ma il Gianfry conosceva le piante meglio di chiunque altro), i ragazzi che l’hanno visto morire raccontano di una polvere sciolta nel caffè bevuto prima del malore. L’elicottero del soccorso alpino ha raggiunto l’alpe Vald quando il Gianfry ormai era già morto.
Ogni escursionista innamorato della Val Grande aveva avuto occasione di incrociarlo, almeno una volta. Si allungava di un po’ il tragitto pur di andarlo a salutare: per fermarsi a far due chiacchiere, per lasciargli qualcosa. Un po’ di riso, due pacchi di pasta, qualche libro.
Perché il Gianfry viveva di nulla: di quello che gli lasciava la gente, delle bacche che aveva imparato a conoscere, della carne dei camosci uccisi dalle valanghe che lui raccoglieva appena finito l’inverno e conservava sotto sale. Viveva lì, nella baita che il Parco gli aveva lasciato a disposizione, dodici mesi all’anno: sempre più rare le puntate a valle, sempre più rari gli incontri con la civiltà dalla quale aveva voluto fuggire.
Personaggio unico. Camminava sempre a piedi nudi, sui sassi come sulla neve, perché «la montagna – diceva – mi insegna l’umiltà: per rispetto la calpesto solo a piedi nudi». Nei lunghi mesi invernali, quando la Val Grande si cristallizza in un inaccessibile rifugio di ghiaccio, il Gianfry restava isolato da tutto e da tutti. Impossibile raggiungere il suo rifugio. Lui si rintanava nel bivacco dentro il quale aveva sistemato una piccola tenda dove si infilava per scaldarsi.
E lì dentro leggeva. Leggeva tantissimo, il Gianfry. Leggeva i libri che la gente gli lasciava durante l’estate (anche noi l’abbiamo fatto, tante volte), tanto che si era costruito una cultura enciclopedica. Sedersi con lui e parlare di tutto era un piacere per la mente, era un’oasi di bellezza.
Se n’è andato. Aggiungendo poesia alla sua storia incredibile, che aveva richiamato in Val Grande giornalisti di tutto il mondo.