Varese, terra di ricerca. Sono 383 le aziende attive in questo settore in provincia e 951 gli addetti, in crescita di oltre il 42% rispetto allo scorso anno nonostante le imprese siano calate di una trentina di unità.
Fin qui i numeri, diffusi ieri dalla Camera di Commercio di Milano. Ma cosa rende il Varesotto così appetibile per chi vuole fare della ricerca scientifica e dello sviluppo di nuovi prodotti un lavoro? Sicuramente la presenza di due università, come l’Insubria e la Liuc, e di un centro di ricerca europeo come il Jrc di Ispra.
«Il proliferare delle aziende che investono in questo settore è legato innanzitutto al fenomeno degli spin off universitari», commenta Tommaso Cherubino, titolare di NextMedical, impresa con sede a Varese attiva nella produzione di dispositivi medici e di componenti ossei biologici per l’ortopedia.
Il riferimento va a quei progetti di ricerca che nascono all’interno degli atenei e che si “trasformano” in una società per commercializzare i risultati raggiunti nei laboratori degli atenei. A quali viene normalmente riconosciuta una percentuale sugli introiti.
«Penso innanzitutto alla facoltà di Biotecnologie dell’università dell’Insubria», aggiunge il titolare dell’impresa che dà lavoro a tre persone a Varese, ma vanta un network di una cinquantina di agenti in tutta Europa. La presenza accademica non è però l’unico elemento. Sullo sviluppo di aziende impegnate nella ricerca pesa anche il fatto che «è sempre più difficile trovare lavoro e quindi molti si mettono in proprio sfruttando le conoscenze accumulate durante gli anni universitari per approfondire determinati settori».
Certamente, non si tratta di un percorso semplice. «Investire in ricerca in Italia rimane troppo oneroso, il costo del lavoro è troppo elevato», aggiunge, «ma è l’unica soluzione per sopravvivere».
Sì, perché «nel nostro territorio la maggior parte delle aziende propongono prodotti che sono sì di qualità superiore, ma purtroppo simili a quelli che arrivano dall’Est europeo e dell’estremo oriente: l’unica soluzione è investire in ricerca».
Innovazione come unica chiave per riuscire ad affrontare il mercato globale. Ne è convinto anche Andrea Valsesia, titolare della Plasmore, azienda nata a Ranco che lavora su nanotecnologie dedicate alle analisi del sangue e della qualità dell’aria e del cibo.
«Intanto direi che mi stupiscono questi numeri», ammette, «pensavo che fossero di meno le aziende che lavorano nella ricerca scientifica in provincia di Varese». Sia chiaro, è uno stupore «in positivo: nel settore delle nanotecnologie per quello che ne sappiamo siamo gli unici, in questi anni non abbiamo mai visto imprese che svolgano un’attività simile alla nostra».
Valsesia spiega i numeri della Cciaa milanese con il fatto che «molte aziende si sono riadattate, capendo che l’unico modo per andare avanti è fase innovazione». Solo in questo modo, infatti, «è possibile essere competitivi prima a livello europeo, quindi mondiale». In un territorio «da sempre attivo e reattivo», la crisi ha poi innescato una miccia: «Ha fatto capire a tutti che bisognava darsi una mossa». Ora i dieci tra collaboratori e dipendenti di Plasmore si aspettano molto da Expo2015.
La manifestazione internazionale è legata al cibo e uno dei prodotti in fase di sviluppo permette di abbattere i costi delle analisi di lotti che si sospetta siano contaminati.
«Normalmente le verifiche si fanno solo se hanno un valore economico, altrimenti conviene buttare via tutto». Uno spreco bello e buono, contro il quale promette una soluzione la ricerca made in Varese.
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