Questa sera la Pallacanestro Varese si gioca un trofeo europeo trentun anni dopo l’ultima finale (persa) di Korac e trentasei dopo l’ultima vittoria. Vada come vada, chi riduce una leggenda dei canestri che è di tutto il mondo a un carro dove meritano di restare soltanto i leccaculo che dopo la Caporetto di Pesaro e metà campionato da retrocessione non mossero una critica, dicendo che andava tutto bene per compiacere i padroni o per l’incapacità di mettere in gioco le proprie idee,
di quel carro che tanto difende resterà per sempre soltanto una ruota: quando la sostituiranno, nessuno si accorgerà della differenza.
Non ha prezzo arrivare in finale senza essere mai stati zitti o ipocriti, con le proprie convinzioni (a volte sbagliate, ma è meglio il dibattito e il confronto dell’apatia e dell’accettazione supina di qualunque cosa arrivi dall’alto) e la schiena dritta facendo mangiare il fegato a chi, quando fa il gesto dell’ombrello in piazza Monte Grappa a un giornalista della Provincia dopo la vittoria in semifinale di venerdì, non sa che noi stasera se tutto andrà bene saremo più contenti di lui. Ci verrà un groppo alla gola e verseremo una lacrima in più di lui.
Non perché avremo avuto torto o ragione sulla gestione economica e umana della Pallacanestro Varese (continuiamo a credere che siano stati fatti gravi errori, e che verranno pagati in futuro) ma perché quel groppo non stringerà la gola e quella lacrima non verrà versata pensando a noi, al nostro ruolo, alla nostra personale vittoria o sconfitta contro qualcosa o qualcuno, ma perché si aggiungerà un trofeo, piccolo o grande che sia, a una bacheca che sembrava chiusa per sempre. E, soprattutto, perché la gioia e l’autentica felicità della gente potranno urlare il disperato bisogno che una vittoria per Varese non sia magari la normalità ma nemmeno l’eccezione. Non sarà eventualmente la Fiba Europe Cup a riempire piazza Monte Grappa o le pagine di questo giornale e a lasciare il segno, ma la straordinaria illusione collettiva di un popolo e una storia ineguagliabile contenuti in un corpo troppo piccolo per non esplodere al primo segnale di riscatto dall’anonimato. Di ambizione. Di primato. Di appartenenza a un destino che non è quello di succhiare le ruote a Trento, Pistoia o Avellino per accomodarsi sempre nella terza, quarta o penultima fila del gruppo.
Se qualcuno ha pensato o pensa che la dirigenza e la squadra della Pallacanestro Varese avessero bisogno soltanto di chi si adegua alle indecisioni, alle scelte di mercato sbagliate (poi aggiustate in corsa) o comunque alla realtà e alle figuracce che arrivavano copiose (come, ora, le vittorie), noi rivendichiamo con orgoglio il diritto e il dovere di critica con cui abbiamo messo ben più di uno spillo – o uno spillone – sul fondoschiena di dirigenti, giocatori e allenatore. Perché quel diritto e quel dovere sono serviti a compattare chi si sentiva attaccato e hanno fatto sì che desse molto più di quello che avrebbe dato se avesse ascoltato solo buonisti, leccapiedi, servi. Se reggi l’urto di quei grandissimi spaccamaroni della Provincia, alla fine magari cresci, ti tempri e sei un uomo più forte di come eri prima (ma cresciamo, ci tempriamo e diventiamo uomini migliori anche noi della Provincia, grazie alle persone con cui entriamo in conflitto). Basta capire di dover essere trattati come vanno trattati gli eredi di dieci scudetti e cinque Coppe dei Campioni. Varese è Varese, un gigante del basket, e la critica deve essere proporzionata a tutto ciò, non assente, imbarazzata o imbarazzante. A meno che si voglia avere a che fare, ben presto, con una squadra e una società minore, sfigata, qualunque.
La Pallacanestro Varese è della storia, della gente, della città, di chi la ama – e per questo la affronta a muso duro, non a lingua spianata – al di là degli attori del momento. Meglio fare la parte dei cattivi che sentirsi dire bravi perché scriviamo ciò che gli altri vogliono vedere scritto. Siamo pagati (dalla coscienza, dalle persone che vanno in edicola o sul web) per questo.
Non ci interessa un posto in prima fila nella grande famiglia biancorossa, non siamo signorsì, non ci adeguiamo al conformismo, non accettiamo commenti vuoti e appiattiti che facciano parlare la fredda cronaca (qualunque tifoso conosce una partita di basket, e sa raccontarla e capirla meglio di noi cronisti), infatti la stima, l’attenzione, la considerazione di chiunque scrive di pallacanestro su questo giornale, dall’editore all’ultimo dei collaboratori, sono tutte per Giancarlo Pigionatti, il nostro modello.
Siamo cani da guardia, rompiamo le pelotas, non siamo nella manica di qualcuno ma quando esprimiamo un complimento, uno solo, ne vale come mille magari già ricevuti. Perché arriva al momento giusto. Perché lascia il segno. Perché non è telecomandato se non dalla passione, dal sentimento, dall’emozione.
Se i biancorossi vincessero la coppa non godremmo contro qualcuno (altri sono pronti a farlo), ma solo a favore: dei tifosi, della gente, della squadra, della Pallacanestro Varese. Che per noi è nonna, madre, figlia. Non complice, né schiava.
Non preoccupatevi, La Provincia non sale sul carro ma continua a vivere sulla strada, ai piani bassi, in mezzo alla gente di piazza Monte Grappa, e insieme a lei stasera urlerà: forza Varese, alza la coppa.