Quel giorno, a Daverio, arrivarono i libanesi. Una famiglia numerosa – padre, madre e tre bambini più qualche zio assortito – mandata lì dal comasco: ce n’erano molti, e vennero smistati un po’ per tutta la provincia.
Il paese, tutto, si mobilitò. Era normale darsi da fare quando c’era qualcuno che aveva bisogno: i nostri nonni avevano fatto la guerra e queste cose le sapevano bene, i nostri genitori le avevano imparate da loro. Ci si ritrovò più o meno tutti a ripulire la vecchia casa del parroco, là dietro l’oratorio, e ognuno cercò di rendersi utile con quel che poteva. E pure noi piccoli facemmo il nostro mettendoci a giocare con i tre bambini – Roula, Gassan, Marwan – che non spiccicavano mezza parola di italiano ma per organizzare una partita di pallone non c’è bisogno di dirsi nulla.
Sono passati degli anni, parecchi. Alcuni di loro sono riusciti a tornare in Libano, perché non esiste al mondo un migrante che non sogni di poter tornare a casa sua. La famigliola – mamma, papà e i tre figli – sono rimasti a Daverio, perché ormai quei bambini si erano talmente integrati qui in Italia che sarebbe stato traumatico riportarli a Beirut.
Ma no, non vogliamo scadere nella banalità e paragonare la Daverio di vent’anni fa alla Goro di oggi. Però se allora ci si mobilitò per accogliere e oggi ci si mobilita per cacciare via, qualcosa dev’essere successo. Qualcosa di brutto. E oggi non ci sono più nemmeno i nostri nonni a ricordarci, magari con un sonoro schiaffone, che quando c’è qualcuno che ha bisogno lo si aiuta. Sempre. Perché domani, a dover chiedere aiuto, potresti essere tu.