Giuseppe Piccolomo è un ergastolano. La condanna al fine pena mai per l’omicidio di Carla Molinari è definitiva.
Perché allora riaprire un caso chiuso, non senza difficoltà, sulla morte della sua prima moglie? È Carmen Manfredda, il sostituto procuratore generale di Milano che ha avocato il fascicolo impegnandosi a non lasciare alcuna via intentata a rispondere. Brevemente, come nel suo stile. «Perché io credo che Marisa Maldera meriti giustizia – ha detto ieri Manfredda – Fatta salva la presunzione di innocenza per Piccolomo che non è in discussione, io credo che le figlie di Marisa Maldera meritino la verità. Merito di sapere con certezza come è morta la loro madre. E perché». Manfredda non ha aggiunto altro, ne ha fatto rivelazioni sulle indagini. Non ha svelato alcun dettaglio. L’inchiesta pare però a buon punto.
Ieri è stato eseguito un esperimento giudiziario per confermare o smentire la versione fornita da Piccolomo su quello strano incidente. L’uomo ha dichiarato di aver cercato di salvare la moglie ustionandosi le mani. Dal fatto, però, Piccolomo è uscito praticamente illeso. E le figlie, Tina e Cinzia, hanno sempre dichiarato che il padre, con spietatezza, ha sempre raccontato loro di aver visto le mani della moglie, la loro mamma, picchiare contro i vetri dell’auto.
E la pelle, infine, sciogliersi con il calore. La portiera era bloccata davvero? Oppure Maldera fu drogata per essere resa meno reattiva e morire in quell’auto? I tossicologici eseguiti sui vetrini post autopsia qualche mese fa rivelano la presenza nel sangue della donna di farmaci. Farmaci, seppur in quantità non massiccia, che stando alle figlie e al medico di famiglia Maldera non aveva mai assunto e che nessuno mai le ha prescritto.