Il basket celebra il passato. E il futuro?

L’editoriale del direttore Andrea Confalonieri

I settant’anni della Pallacanestro Varese cadevano lo scorso primo agosto ma la società ha curiosamente deciso di celebrarli da ieri con mostra, seminario, talk show, libro ecc.: il marketing al giorno d’oggi riesce a spostare persino il compleanno di una “diva” (anzi, Diva) dall’estate all’inverno, ma noi ci permettiamo di riportarlo alla realtà.
I settant’anni dell’unico motivo per cui Varese è conosciuta in tutto il mondo meritano di essere celebrati ogni giorno, nei fatti e nei sogni della gente,

da tempo azzerati o attanagliati da mediocrità e paura e non basta un banchetto in piazza Monte Grappa con un libro che fa bella mostra di sé come regalo di Natale se i tifosi da mesi, anzi ormai da due anni, tornano a casa dal palazzetto con la stessa domanda: «Qual è il nostro futuro?».
Il nome e la fama della Pallacanestro Varese superano i confini di quel libro, come una religione che, nel momento in cui si accontenta di vivere nel presente (da mesi qui il mondo si è fermato a Ukic o non Ukic: frustrante) o nel passato, non sapendo che fare del suo futuro, è destinata a scomparire. Ma esiste un uomo capace di incarnare questa “religione” e sostenerla, innalzarla oltre i risultati, le miserie o le rare vittorie del momento? Dov’è l’idea, il progetto, l’ambizione, il guizzo oltre la celebrazione delle origini?
Esiste qualcuno che può parlare dall’interno della società per nome e per conto di una leggenda, costringendo la gente ad ascoltarlo come fecero – ultimi in ordine di tempo – Vescovi e Pozzecco, oppure come fanno ogni volta che vengono chiamati in causa un Toto e un Edo Bulgheroni, un Ossola, un Isaac, un Morse, un Sacchetti, un Pigionatti, un Gergati, un De Pol, un Galanda, un Andrea Meneghin, un Attilio Fontana, un Galleani, un Vitucci (ci ha regalato l’ultimo sogno), un Magnano (averlo combattuto e, poi, rimpianto dal momento in cui se n’è andato rende l’idea dell’uomo che era e che è), un Gianfranco Castiglioni (trovate un altro imprenditore varesino capace di buttare i soldi dalla finestra per il basket come ha fatto lui) o un umile tifoso qualunque?
Esiste un problema di rappresentanza: chi vuole essere seguito da un mito (ogni tifoso, qui, sente nel suo cuore un pezzetto di quel mito) deve possedere i galloni, la pienezza, la profondità e la stoffa per farlo. Deve profumare dalla testa ai piedi di Pallacanestro Varese, alzarsi e vivere per lei non oggi perché ha un ruolo: deve averlo fatto ieri e dovrà farlo domani, dopodomani e per sempre, anche quando non sarà più nei ranghi. Deve, soprattutto, aver sofferto o pianto almeno una volta nella vita per lei e per una sconfitta, che sia la prima retrocessione con Venezia o la coppa Italia persa con Caserta, i sogni scudetto rotti con il Meo e Dunston o la prima sconfitta casalinga in Coppa dei Campioni contro la Jugoplastika dopo 9 anni di imbattibilità, oppure un sogno infranto su un piede di Cook fuori dalla linea non visto da Pasetto.
Convegni, libri, tavole rotonde, fotografie e celebrazioni non serviranno a nulla finché mancherà qualcuno capace di rappresentare le radici, il senso di appartenenza, la sofferenza e le ferite, le battaglie e l’orgoglio racchiuso in due parole che, solo a pronunciarle, mettono i brividi: Pallacanestro Varese.
Ps: i risultati e i soldi spesi male o bene non c’entrano nulla. L’anno della promozione dalla Legadue c’erano più partecipazione, emozione e senso del futuro di queste ultime due stagioni passate a vivacchiare quasi nel nulla.